L’informativa anonima irrompe nel dossier gasiera “incagliata” quando nell’area ad elevata crisi ambientale di Portovesme è appena esploso lo scandalo del fondale vietato nel porto industriale del Sulcis. Quando mappe e coordinate raggiungono la redazione, l’Istituto Superiore di Sanità aveva appena finito di dettare un sonoro parere contrario a quel rigassificatore galleggiante nel cuore di un territorio devastato da inquinamento e fabbriche chiuse. Gli stralci di planimetrie georeferenziate con latitudini e longitudini sembrano una caccia al tesoro tra ciminiere e pale eoliche, tra discariche e cave dismesse. Di certo si percepisce l’oggetto del contendere: l’area industriale di Portovesme e il suo stato di salute, o meglio di malattia. L’unico dettaglio esplicito “blindato” nella pen drive è un elenco di località, le più disparate, dettagliate come una sorta di bussola per sprovveduti del Sulcis.

La mappa cifrata

Ci sono coordinate a nord e ad est, da incrociare su reticolo stradale consunto all’inverosimile, come se qui il tempo si stesse fermando a colpi di freni a mano tirati di botto. Non c’è fabbrica ancora aperta, o già chiusa, dove non sventolino le bandiere sbiadite delle infinite lotte dei lavoratori. Più ti addentri in questi simboli di archeologia industriale e più ti accorgi che la storia della Sardegna ”usa e getta” si sta sempre più consumando in un paesaggio di ruggine e abbandono. Le macerie industriali non si contano più, i nastri trasportatori, una volta di carbone e un’altra di cenere, di bauxite e galena, cadono a pezzi, i camion, una volta chiusi un’altra semiaperti, viaggiano a ritmo ridotto, dal porto “incagliato” sino ai forni che ancora bruciano.

Sa Piramide

Il nome più esplicito della mappa cifrata nelle nostre mani è “Sa Piramide”, il simbolo di quella violenza nefasta che si è abbattuta su questo territorio quando l’ambiente veniva considerato un soprammobile inutile, da depredare e devastare. Prima era una discarica incontrollata, ora è risagomata come se quella montagna di veleni si fosse sottoposta ad un lifting per affrontare l’eternità. I codici di accesso al punto indicato dalla mappa portano verso una posizione ignota, dritta sui vicoli rupestri a monte di quel gigantesco cumulo di rifiuti industriali, ora apparentemente sigillato e controllato. Quando varchi l’ultimo viottolo impolverato, prima di raggiungere la coordinata prefissata nel papiro d’agosto, percepisci come una scudisciata al cervello quella lama da 120 metri di diametro che affetta il cielo, alla ricerca di vento e incentivi. In lontananza percepisci, tra il verde di macchia e qualche alto fusto, un “punto” bianco sospeso sull’unico albero che traguarda le ciminiere che si stagliano verso il porto industriale, quello vietato per i fondali troppo bassi.

Chiromanti dell’ambiente

Per avvicinarti devi irrompere in un terreno arso come un crogiolo, impolverato e secco come un deserto cosparso di pulviscolo industriale. Le coordinate della mappa per il punto “P5 Sa Piramide” sono esatte, come se non si fossero mai spostate da almeno quarant’anni, da quando in questo enclave di veleni si è cominciato a parlare di inquinamento ambientale. Tutto qui è surreale. Inerpicato tra rami e fogliame, racchiuso tra vegetazione e rovi, si erge un “secchiello” di plastica, quello tipico da olive conciate, coperto da una zanzariera fissata sulla circonferenza da un fil di ferro mal posto. Roba da “chiromanti” dell’ambiente. L’unica indicazione è su quel nastro da pacchi: sigla, località e data, senza anno: 29 giugno.

Secchielli per veggenti

Per il resto niente più. Quello piazzato a Sa Piramide è il primo dei sei “secchielli” per “veggenti” dell’ambiente, sistemato nientemeno che dall’Arpas Sardegna, l’agenzia che dovrebbe occuparsi della protezione ambientale dell’Isola. Dovrebbe, appunto. Nei giorni in cui l’Istituto Superiore di Sanità invocava studi approfonditi sulla qualità dell’aria in una delle zone industriali più inquinate d’Italia, decretata come Sin, Sito di Interesse nazionale per l’inquinamento, emerge uno scenario raccapricciante sui controlli a cui è sottoposto il Sulcis. In questa terra devastata da industrie che hanno prima rapinato l’ambiente e poi licenziato, non esiste un registro dei tumori, si ignora, forse volutamente, il grado di inquinamento.

Metodi rozzi

Si muore di tumori più che altrove, si racconta. Dati, studi, analisi, però, nessuno ne ha. E il quadro che stiamo per raccontarvi mette a nudo una drammatica verità: i controlli ambientali sono affidati a metodi rozzi, privi di qualsiasi riscontro serio e oggettivo, con secchielli sparsi qua e là, da recuperare ogni tre mesi per riscontrare il niente. Nessun giudice potrebbe mai dare credibilità a quei contenitori “domestici” sparsi sotto le piante, con rami e foglie che impediscono qualsiasi capacità “recettiva” di “polveri sedimentabili” che dovrebbero registrare lo stato di salute dell’ambiente. Roba tribale che appartiene a metodi antesignani di misurazione delle polveri “ambientali”.

Il gioco del secchiello

Il gioco del “secchiello” si dispiega in sei siti a Portoscuso: oltre a Sa Piramide ci sono Generuxi, Perdaias, il Depuratore di Paringianu, Concali Arrubiu, Casa Figus-depuratore e Palazzo Gardenia. E poi due a Carbonia, a Cortoghiana e al Distributore di Flumentepido, due a Gonnesa, al nuraghe di Seruci e a Nuraxi Figus, uno a Is Bingias nel comune di San Giovanni Suergiu e uno a Punta Dritta nel territorio di Sant’Antioco. Un sistema di controllo ambientale che fa rabbrividire i tecnici del settore, quelli che sanno perfettamente che da decenni quei metodi di rilevamento sono inutili e arretrati. Basta rivolgersi alle Agenzie di protezione ambientale più attrezzate per capire che quei “secchielli” sono “accrocchi” medioevali incapaci di misurare qualsivoglia inquinamento. I deposimetri ora sono elettronici e con fotocellule, capaci di misurare umidità, quantità e solidità delle polveri. Strumenti indispensabili per la valutazione della qualità dell’aria in un’area delicata e a rischio come quella di Portoscuso. Anche qui, come altrove, non si tratta di mettere a rischio il lavoro nelle fabbriche per tutelare ambiente e salute, ma semmai l’obbligo sacrosanto di garantire salute a chi lavora e ai cittadini che vivono in questi territori.

Inquinamento al buio

Basti un solo elemento per comprendere la gravità della situazione: nel Sulcis non è stato mai realizzato un serio rapporto ambientale in base alle metodologie in linea con i Rapporti Istisan, quelli adottati dall’Istituto superiore di Sanità. La quantità delle emissioni da varie fonti, di ieri e di oggi, comprese le polveri legate a vecchie attività dismesse, ma sempre presenti nell’area industriale, avrebbe dovuto imporre una verifica e un monitoraggio dettagliato del territorio, a partire dalla contaminazione dei suoli con conseguente pericolo per la catena alimentare. Tutti elementi inquinanti dispersi in atmosfera e in parte depositati al suolo in conseguenza dell’interazione degli agenti atmosferici (precipitazioni, vento, temperatura). La continua ed efficiente misurazione dei tassi di “deposizione” è l’unica possibile azione per acquisire informazioni sulla reale situazione di contaminazione di un’area industriale come quella di Portovesme e sulla conseguente valutazione del rischio esposizione per la popolazione. La domanda è un obbligo: Chi ha interesse a non misurare il grado di inquinamento? Per quale motivo, nonostante i milioni di euro che costano annualmente le agenzie regionali, non si fanno investimenti seri sul monitoraggio ambientale?

Centraline dei “padroni”

Di certo la vicenda sollevata dall’Istituto della Sanità in relazione al carico inquinante sulla zona industriale di Portovesme e le zone limitrofe riapre un vero e proprio squarcio sul polo industriale del Sulcis, sui tanti soldi pubblici spesi e i pochissimi, e molto spesso inutili, interventi realizzati sul piano ambientale, a partire dai mancati controlli. Ultimo dato: per la misurazione delle polveri ad impatto sanitario ci sono 5 centraline della Provincia, controllate teoricamente da Cagliari, perché all’Arpas del Sud Sardegna non ci sono apparecchiature mobili per verificarne il corretto funzionamento. Non c’è da preoccuparsi: le altre centraline, dislocate nel territorio, sono tutte di proprietà delle industrie.

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