«Scattare una fotografia oggi del comparto cerealicolo della Sardegna, ormai radicato quasi esclusivamente nelle pianure centro meridionali dell’Isola, non è cosa facile soprattutto a causa delle numerose variabili intervenute negli ultimi due decenni nel trasformare le produzioni verso il consumo agroalimentare, non zootecnico, di un settore che conserva la sua forza nella coltivazione del grano duro: elemento base per la produzione di pane e pasta». 

È la premessa di Confagricoltura, che fa il punto sul comparto cerealicolo in Sardegna, sottolineando i problemi del settore e la necessità di far fronte al costante cambiamento. «Un cambiamento – sottolinea il sodalizio - che ha mosso i primi passi con le riforme messe in essere dalla Commissione europea nella prima parte degli anni duemila, quando si è intervenuti nel favorire le produzioni cerealicole con la rotazione della lavorazione dei campi, così da garantire la coltivazione di leguminose, e destinando quindi i premi comunitari previsti per gli agricoltori su nuovi canali di erogazione che andassero oltre la monocoltura del grano. Tale intervento ha ridotto notevolmente le superfici coltivate che solo in parte sono state recuperate come seminativi a leguminose».

IL CALO –  Un calo, evidenzia Confagricoltura, che ha portato le aree destinate al grano duro in Sardegna dai 97mila e 108 ettari del 2003 ai 28mila e 475 ettari del 2025. Un trend che dal 2017 a oggi non ha mai superato, tra alti e bassi, il tetto dei 30mila ettari. «Se da un lato si è creata questa contrazione, solo in parte recuperata dalle altre colture a seminativo, dall’altro si sono avute quindi conseguenti riduzioni dei quintali prodotti ma, dato molto interessante, un incremento delle rese per ettaro. Si è passati quindi da una situazione altalenante nei primi quindici anni del secolo a un quadro più stabile in quest’ultimo decennio con una forbice che oscilla tra i 100mila e i 70mila quintali raccolti. Le rese per ettaro sono invece passate dai quasi 15 quintali degli inizi anni duemila a una media di quasi 27 quintali dell’ultimo quinquennio. Dati che è necessario valutare tuttavia all’interno di una notevole evoluzione che ha subito il comparto sia in termini di ridotto ricambio generazionale e di mancanza di manodopera e sia sul piano dell’innovazione tecnologica sulle nuove tecniche produttive».

LA CONCORRENZA – Se da un lato c’è una sostanziale stabilizzazione del comparto sul piano interno, dall’altro –prosegue Confagricoltura – «continuano a creare forti scossoni gli elementi esterni come l’andamento dei prezzi del prodotto condizionato dalla globalizzazione dei mercati con l’arrivo, in Europa e quindi in Sardegna, di consistenti quantitativi da Canada ed est Europa a prezzi troppo bassi rispetto agli standard di produzione di alta qualità a cui sono tenuti gli agricoltori locali. E se la concorrenza sfrenata dei mercati internazionali fa la sua parte nel mettere in difficoltà il settore, anche la crisi climatica gioca un ruolo di non poco conto soprattutto nella gestione delle ondate di calore o del forte mutare delle stagioni. Tale criticità ha quindi imposto un passo diverso sul piano della ricerca delle varietà genetiche da migliorare e incentivare per le colture. Un passaggio obbligato se si vogliono tenere quantità adeguate qualitativamente e quantitativamente, dove l’elemento dell’eccellenza del grano duro di Sardegna è forse uno dei pochi punti di forza su cui puntare attraverso la valorizzazione delle filiere produttive per le trasformazioni tradizionali di pasta e pane».

GLI AGRICOLTORI – La mancanza della manodopera è certamente il collante di maggior preoccupazione che lega tutti i comparti agricoli del Vecchio continente. Nello specifico del mondo cerealicolo è tuttavia il fattore prezzo, riconosciuto ai produttori, l’altro elemento di estrema fibrillazione.

«Le forti oscillazioni al ribasso, con un valore pagato a chi coltiva tra i 28 e 30 euro a quintale all’interno di programmi di filiera che si riducono a 26 euro per chi opera fuori da tali progetti, sono il maggior ostacolo sul cammino delle produzioni di qualità e soprattutto sul piano della sopravvivenza economica delle imprese. Prezzi così stracciati rischiano a volte di non coprire le spese di preparazione dei campi, acquisto delle sementi e trebbiatura finale. Una condizione ormai insostenibile che sta spingendo molti cerealicoltori a rivolgere le proprie attenzioni verso altre colture o, ancor peggio, verso l’abbandono della professione», dice Alessandro Abis, agricoltore di Villasor e presidente di Confagricoltura Cagliari. Aggiungendo: «Per migliorare la situazione attuale è necessario puntare su due direttrici di intervento: una interna con la valorizzazione, in termini economici, delle filiere che assicurano produzioni di grano sardo di elevata eccellenza per la trasformazione in pani tradizionali, primo fra tutti il Carasau che proprio attraverso il nostro grano raggiunge i livelli più alti, e anche della pasta che in Sardegna, come tanti territori d’Italia, vanta specificità uniche e inimitabili da tutelare e promuovere meglio sul campo del food mediterraneo».

Altro elemento da regolare – ha proseguito il presidente di Confagricoltura Cagliari – «è quello della concorrenza del grano straniero, prodotto con normative agro-sanitarie molto meno stringenti di quelle comunitarie e quindi di minor qualità, che nelle ultime evoluzioni della globalizzazione ha subito anche una finanziarizzazione delle commercializzazioni. In sostanza, quando un carico parte dal nord America verso un porto europeo, per esempio, non si ha un prezzo definito del prodotto che subisce continue sollecitazioni rispetto agli andamenti delle borse mondiali sia al rialzo e sia, molto più spesso, al ribasso durante le giornate di navigazione. Questo quadro genera quindi notevoli scossoni sul valore finale del grano che ricadono sempre sui produttori primari. Dovrebbe quindi essere compito dell’Ue e dei governi nazionali imporre nuove regole che limitino queste speculazioni finanziarie, così da tutelare l’operato degli agricoltori e dell’intera filiera di trasformazione», ha concluso Alessandro Abis.

Insomma, il comparto oggi «galleggia e negli ultimi anni si è spostato sempre al ribasso in una direzione che porterà al solo collasso della cerealicoltura regionale», sintetizza Paolo Canargiu, agricoltore e allevatore di San Gavino Monreale che solleva oltre alle criticità già ricordate da Abis, il tema della valorizzazione delle sementi locali e della «necessità di investire su programmi di filiera che partano dalla prima fase della coltivazione: da quel grano da seme sardo che conserva ancora livelli di straordinaria eccellenza e che andrebbe tutelato e migliorato con la ricerca scientifica, così da assicurare a chi coltiva una base di partenza superiore rispetto ai competitori globali».

LA RICERCA – Proprio sul piano della ricerca scientifica, del miglioramento delle produzioni, del conseguente adattamento alla crisi climatica e dell’analisi d’insieme del comparto si occupa l’Agenzia regionale Agris Sardegna che, attraverso i suoi studiosi, ha intrapreso anche attività sulla valorizzazione genetica delle tipicità locali del grano e sul miglioramento delle tecniche colturali.

«La tendenza in atto – osserva Marco Dettori, Direttore del Servizio per la ricerca sui sistemi colturali erbacei di Agris – conferma la progressiva riduzione delle superfici coltivate e, conseguentemente, delle produzioni, solo parzialmente compensate dall’incremento delle rese. I raccolti non riescono pertanto a soddisfare neanche la domanda interna di grano duro. Le cause di tale condizione sono legate a diverse variabili: la scarsa remuneratività di questa coltura dovuta a prezzi bassi e volatili della granella; l’aumento del costo delle materie prime (gasolio, concimi e diserbanti); condizioni meteo-climatiche fortemente aleatorie, legate sicuramente alle condizioni di cambiamento climatico, che determinano periodi di siccità prolungata alternati a precipitazioni spesso intense e incremento della frequenza e della durata di ondate di calore durante le operazioni di preparazione alla semina e nel corso del ciclo colturale».

Sempre secondo Dettori, affinché si creino condizioni di rilancio del comparto, è necessario «concentrare la coltivazione negli areali più fertili; ricorrere a tecniche agronomiche che assicurino il contenimento dei costi con l’agricoltura di precisione; incrementare le superfici servite da acqua consortile, per permettere l’irrigazione di soccorso, così da aumentare e stabilizzare le rese; valorizzare i prodotti locali da filiera corta; incoraggiare la diffusione di accordi tra produttori e trasformatori con fissazione di un prezzo minimo garantito. Un ulteriore elemento di valorizzazione del grano duro, in un’ottica di filiera – ha concluso il ricercatore di Agris –, è inoltre rappresentato dall’alto valore salutistico delle produzioni sarde, caratterizzate da bassissimi contenuti di micotossine, contrariamente al grano proveniente dall’estero. Su questo aspetto è necessario fare leva, soprattutto a livello di informazione dei consumatori».

(Unioneonline/l.f.)

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