La storia italiana è segnata di crimini che hanno fatto epoca e che hanno riempito le cronache per mesi, anzi per anni. Pensiamo al delitto di Cogne oppure alla strage di Erba, recentemente ritornata all’attenzione dei media. Nell’Italia in bianco e nero degli anni Cinquanta del Novecento ad accedere l’interesse di una nazione che ancora si stava leccando le ferite della Seconda guerra mondiale ci fu il “caso Montesi”. Già, “caso Montesi”, un’espressione neutra, tra il giuridico e il giornalistico, ma che non rende giustizia alla sfortunata protagonista di una vicenda che fece tremare i palazzi del potere più di settant’anni fa. Wilma Montesi - ecco il nome della nostra tragica eroina – ritrova oggi il posto che le spetta sul palcoscenico della storia e della cronaca nera in Wilma (il Saggiatore, 2024, pp. 528, anche e-book), il romanzo che le ha dedicato Silvia Cassioli.

Un romanzo che è anche una docu-fiction, in cui cucendo insieme le dichiarazioni dei testimoni e dei sospettati, le inchieste giornalistiche e gli interrogatori, Silvia Cassioli cerca di districare con la scrittura una vicenda che appassionò in maniera così morbosa i contemporanei da dare far perdere loro la voglia di cercare la verità, preferendo abbeverarsi nelle ambiguità, nei sospetti, nelle dietrologie, nei pregiudizi gratuiti.

Cassioli invece si affida ai fatti, a partire da quello che diede il via a tutta la vicenda. L’11 aprile 1953, sulla spiaggia di Torvajanica, a circa quaranta chilometri da Roma, il corpo di una giovane donna venne trovato riverso sulla spiaggia. Il suo nome era Wilma Montesi, una ragazza di ventun anni, definita “con qualche vaga aspirazione cinematografica” nelle cronache dell’epoca. In apparenza sembrava essersi trattato di uno sfortunato incidente, degli esiti di una nuotata un po’ fuori stagione finita male.

Troppe cose, però, non quadravano, anche se tra gli inquirenti forte era la voglia di chiudere in fretta il caso, per pigrizia o forse per il timore, piuttosto fondato, di sollevare un vespaio. Comunque, qualche solerte funzionario di pubblica sicurezza e qualche giornalista iniziò a indagare tra la cerchia degli amici e dei conoscenti della vittima: persone del mondo dello spettacolo, della giustizia e anche della politica, a partire da Piero Piccioni, figlio del vicepresidente del Consiglio, il democristiano Attilio Piccioni. Ma ben presto nella storia entrarono personaggi abituali dei salotti della Roma bene, personaggi ambigui come Anna Maria Moneta Caglio, detta dai giornali “il Cigno nero” e rampolla di una facoltosa famiglia milanese in cerca di fama a Cinecittà. Assieme a lei il marchese Ugo Montagna, nelle cui tenute pare avvenissero orge cui partecipavano anche personaggi molto noti.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Sono questi i coprotagonisti che progressivamente sottrassero il centro della scena a Wilma in un viluppo di morbosità e distorsioni, impunità e sofferenza, in cui l’accaduto – la morte di una giovane donna - diventò meno importante del racconto romanzato e del giudizio di cui era rivestito. Cassioli con il suo libro prova in un certo senso a riavvolgere il nastro per farci capire dove si è sbagliato, in cosa magistrati, poliziotti, giornalisti e gente comune hanno mancato. Il suo è il tentativo di ricostruire attraverso un mosaico di voci la figura di una ragazza trattata troppo a lungo come semplice simulacro, vittima di un delitto senza colpevoli e ridotta a materiale per articoli scandalistici. È il tentativo di liberarla dal suo destino di comparsa quando invece aveva tutto il diritto prima di tutto di vivere e poi di ricevere pietà e giustizia. Con certezza non sappiamo, infatti, chi la uccise, non sappiamo neppure perché, ammesso che abbia senso saperlo. Sappiamo che Wilma era innocente, probabilmente l’unico essere umano senza colpa in una vicenda gretta, volgare, priva di scrupoli.

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