Capire come si sia diffuso il coronavirus nel corso della prima e della seconda ondata può rappresentare un’ottima base per prevedere quale sarà l’andamento futuro della pandemia e, nel caso, studiare strategie per la sua decelerazione. È questo il punto di partenza di uno studio incentrato sulla Lombardia – ma che può essere esteso ad altre regioni – realizzato dal gruppo di ricerca dell’Alta scuola Politecnica e di cui fanno parte Christian Cancedda, Alessio Cappellato (da science engineer del Politecnico di Torino), Federico Capello (ingegnere matematico del Politecnico di Milano), Luigi Maninchedda e Leonardo Meacci (management engineer del Politecnico di Milano), Claudia Salerni (ingegnere biomedico del Politecnico di Milano) e Sofia Peracchi (designer della comunicazione del Politecnico di Milano). Un lavoro, chiamato Covid@Lombardy, in cui i due giovani sardi sono stati impegnati dal luglio 2020 al settembre 2021 nell’ambito dell’Alta Scuola Politecnica, progetto formativo multidisciplinare tra il Politecnico di Milano e quello di Torino.

Christian Cancedda, 23enne di Carbonia, ha sempre avuto una passione per le nuove tecnologie, che si è rafforzata col suo percorso di studi: a Torino ha concluso sia la laurea triennale sia la magistrale e ora sta terminando la tesi sui sistemi di guida autonoma. Racconta a L’Unione Sarda qual è stato il suo ruolo nel progetto sul Covid.

“Tutto è nato da una proposta da parte del professor Stefano Ceri, ordinario di Database Systems al Politecnico di Milano, relativa ai fenomeni di diffusione dei virus – tutti, in questo specifico caso il Covid – non solo interni, come il sequenziamento, e su come usare dati a un livello più alto per capire cosa succede nelle vie del contagio considerando le caratteristiche di una regione per indagare se queste abbiano un qualche peso”.

Perché è stata presa in esame la Lombardia?

“Perché questa regione ha presentato caratteristiche anomale, alla fine della prima ondata della pandemia aveva qualcosa come il 40 per cento dei casi di coronavirus in Italia. Quindi ci siamo chiesti cosa avesse di particolare e se ci fosse un motivo specifico. Ecco il senso di utilizzare le nuove tecnologie: capire cosa succede e perché ci siano stati certi risultati”.

Come avete lavorato?

“Trattandosi di un fenomeno nuovo - all’epoca si sapeva molto poco sulla diffusione ad esempio se fosse solo per via aerea o anche attraverso le superfici - dovevamo indagare attraverso nuovi modi”.

Lei di cosa si è occupato?

“Ho creato degli esperimenti che potessero far comprendere ed esprimere i perché dei contagi, quindi il design e la definizione delle tecniche di analisi”.

Come si è sviluppato lo studio?

“Prima abbiamo individuato delle macro aree su base Eurostat – sanità, popolazione, settore primario, istruzione, mobilità ed economia – poi siamo passati all’esplorazione di dati Istat sulle variabili di interesse esaminando la letteratura più recente della ricerca sulla comprensione di virus e sulla diffusione in un settore. Infine si doveva unire tutto in un puzzle per raggiungere una visione d’insieme dove ogni tessera deve combaciare con le altre”.

A quali conclusioni siete arrivati?

“La Lombardia è stata la regione più colpita per un insieme di fattori: l’alto numero di ore medie lavorate dalle persone, perché ovviamente più queste crescono più aumenta il rischio; il numero degli studenti presenti nelle strutture di formazione, elemento che incrementa i contatti, e anche la mobilità; poi la crescita delle aspettative di vita, a popolazione più anziana corrisponde un aumento di rischio”.

La Sardegna, nel grafico che avete realizzato, è colorata in giallo, rischio ridotto, come poche altre regioni del sud Italia.

“Sì, perché sulle aspettative di vita ha ottenuto indici alti ma ad esempio su altre condizioni non ha rispettato, per sua fortuna nell’ottica del contagio, lo standard. Parliamo ad esempio del numero di ore lavorate”.

Quali strategie si sono rivelate più efficaci per combattere la diffusione del virus?

“Studiando l’utilizzo delle policy di controllo non farmacologiche ci siamo soffermati sul modo in cui queste hanno modificato la situazione. Ad esempio: se tutti fossero stati messi a lavorare da remoto, sarebbe cambiato qualcosa? Effettivamente abbiamo notato che una delle policy più efficaci, dai dati di coronaNet, si è rivelata vincente: più persone operavano da remoto, più si registrava un rallentamento. Un decremento tra numero di ore lavorate negli uffici e diffusione del virus”.

Nella pratica come funziona?

“Con una relazione, si paragonano i dati osservando cosa succede ‘x’ giorni dopo (fino a 21) l’attuazione della policy, e si individua quella che in tale periodo è stata la più efficace”.

Altre strategie?

“Quella che riguarda gli studenti, con le attività didattiche a distanza: meno contatti, meno diffusione. Un elemento su cui si sono incentrate infatti le politiche di molti Stati, Italia compresa”.

Questi dati a chi e a cosa servono?

“Lo studio è utile non solo per una conoscenza tecnica in campo scientifico ma anche come spunto per altri approfondimenti. Inoltre è a disposizione di tutti. In seguito porteremo il sistema che produce l’analisi su una piattaforma del Cern che consentirà di riprodurre in modo semplice i risultati. Nella scienza sono importanti le fonti ma anche la riproducibilità dello studio”.

La Sardegna potrebbe utilizzare la stessa metodologia?

“Sarebbe interessante affinare questo lavoro con specifiche regioni e vedere come si comportano. Per l’Isola si potrebbe ripetere guardando alla mobilità, cosa che tra l’altro è stata fatta da un nostro supervisor. A me viene in mente in modo specifico puntando l’attenzione sui trasporti. Per noi uno dei limiti è stato quello di non poter ottenere certi dati come quelli delle frequentazioni delle autostrade, esistono ma sono privati, o dei provider telefonici. Per arrivare o partire dalla Sardegna non si può prendere una macchina e raggiungere la terraferma, ma è indispensabile viaggiare su navi o aerei, quindi numeri e percorsi più agevoli da registrare”.

***

Anche Luigi Maninchedda, come il collega Cancedda, è stato coinvolto nello studio sul Covid. Nato a Sassari nel 1997, quando era ancora un bambino la famiglia si è trasferita in Veneto per motivi di lavoro. “Qualche ricordo della mia bellissima terra di origine ce l’ho, e torno regolarmente perché lì è tutto incredibilmente unico”.

Dopo la maturità scientifica, si è iscritto al Politecnico di Milano e tra poco discuterà la sua tesi su un caso di studio su come le aziende italiane del settore manufatturiero possano incrementare l’uso degli strumenti cosiddetti 4.0.

All’Alta Scuola Politecnica è entrato superando una selezione per la scelta di 150 studenti. “Prevede corsi extra e tesi multidisciplinari tra chi ha un background differente, e proprio in quest’ambito è nato il progetto legato al Covid proposto dalla ricercatrice e virologa Ilaria Capua”.

Come vi siete organizzati?

“Lo studio è diviso in due parti: creare un database con informazioni provenienti da banche dati pubbliche per confrontare le caratteristiche di ogni regione con i casi di coronavirus, e poi determinare la correlazione tra regioni più attive rispetto a quelle con movimenti diversi. In conclusione: lo scambio di contatti tra le persone alla base della diffusione è stato confermato, sottolineo a livello scientifico e con un modello matematico”.

Risultato definitivo?

“Non è ovviamente esaustivo al 100 per cento, bisognerebbe convincere altri enti a raccogliere e a organizzare i dati nel miglior modo possibile ma è un processo costoso che non dà frutti nel breve periodo”.

Qual è stato il suo ruolo?

“Coordinare le varie attività, supervisionare, raccogliere le parti svolte dagli altri colleghi. Qualcosa che comunque si avvicina molto al lavoro che già svolgo: sono project controller, pianifico progetti di grandi dimensioni per un’azienda ingegneristica”.

L’Italia come se l’è cavata nel vostro studio?

“È uno dei Paesi in cui la quantità di misure restrittive è stata maggiore rispetto ad altri Stati, ma non è stato possibile andare nel dettaglio delle varie regioni perché i dati erano molto aggregati, quindi abbiamo visto l’andamento della curva senza ulteriori approfondimenti”.

Per raggiungere certi livelli di preparazione si deve andare per forza a Milano o a Torino?

“Quelle sono le eccellenze, e quelle opportunità non le possono offrire altre realtà nel nostro Paese”.

Cosa direbbe ai giovani come lei che volessero inseguire il sogno di lavorare nel mondo dell’ingegneria del futuro?

“Di non arrendersi, di non darsi per vinti anche di fronte alle difficoltà economiche perché molte volte sono queste a fermarci. Ci sono davvero molti modi per superare questi ostacoli. Se sei una persona valida e hai voglia di fare, le occasioni arrivano. Così come le soddisfazioni, se ci si impegna sul serio. Non dite mai: non posso farcela, non me lo posso permettere; seguite sempre la vostra determinazione”.

© Riproduzione riservata