Chi ha già letto Stoner, il terzo romanzo dello statunitense John Edward Williams, non può non essere tornato con il pensiero a questa storia almeno una volta. Non può non essersi domandato se la vita di questo professore universitario del Missouri, di cui colpiscono le mani grandi e ruvide provate dalla terra, assomigli per caso alla propria esistenza.

Ognuno ha una sua risposta, ma un’unica certezza: questo romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1965, uscito in versione italiana soltanto nel febbraio del 2012 (traduzione di Stefano Tummolini per Fazi Editore), è quello che si dice il risultato di una narrazione perfetta. "Una scoperta meravigliosa per tutti gli amanti della letteratura", riporta sulla copertina lo scrittore Ian McEwan.

Non è stato semplice: alla sua prima uscita sul mercato americano, Stoner ha venduto a mala pena duemila copie. Poi, grazie al passaparola tra i lettori e alla popolare scrittrice francese Anna Gavalda, che ne ha comprato i diritti per tradurlo nel 2011, ha conosciuto un successo enorme in Europa (mai replicato negli Stati Uniti).

Qual è il segreto? La semplicità. L'esistenza fin troppo normale del suo protagonista, per tutti Stoner, un’unica volta chiamato William, da una persona soltanto Willy.

La narrazione non inganna mai il lettore, Williams non vuole raccontare la storia di un eroe (di un anti-eroe forse sì), e lo dimostra fin dal suo incipit: "William Stoner si iscrisse all'Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni - recita l'inizio del romanzo - . Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso lo stesso ateneo, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido". Tutto qui? Ebbene sì, tutto qui.

Nelle successive 322 pagine, questa è la sola storia che si racconta: una storia fatta di avvenimenti prevedibili, ripetitivi, piatti e noiosi. Di un uomo che “non si allontana mai per più di centocinquanta chilometri da Boonville”, il paese in cui è nato. Al contempo, è un romanzo in grado di appassionare, merito di uno stile asciutto, di un linguaggio a tratti referenziale, di una scrittura pacata e sensibile. E di un’attenzione ai dettagli che rendono memorabile ogni vicenda.

William Stoner – la cui vita in parte ricorda quella del suo autore - viene da una famiglia di umili contadini, lavora la terra e, raggiunta la maggiore età, ha la possibilità di frequentare l’università, dove poi finirà con l‘insegnare. Mantiene lo stesso lavoro per tutta la vita e lo svolge senza infamia e senza lode, ostacolato per venticinque anni dal rettore che lo ha in antipatia (come se si possa avere in antipatia un tipo come Stoner…).

Sposa la ragazza che desidera, Edith, ma il matrimonio si rivela presto un fallimento che si ripercuote sulla figlia da lui tanto amata, Grace. Inizia una relazione extra-coniuguale con Katherine Driscoll, che si conclude con un mezzo scandalo e l’allontanamento di lei. Gli succedono diverse cose, questo è vero, ma Stoner le vive in maniera così passiva che, arrivato a 42 anni, nel romanzo si legge che "dinanzi a sé non riusciva a vedere niente da desiderare, e dietro di sé aveva ben poco che gli importasse ricordare"; davanti a queste parole il lettore non resta meravigliato.

Perché dunque leggere di un uomo che più spesso soccombe, anziché lasciare che la felicità entri nella sua vita?

Perché dietro quel suo essere introverso e passivo, Stoner fa anche delle scelte coraggiose: figlio di un contadino, scopre il potere della letteratura e persegue la sua vocazione. Fatica per rendere onore alla missione dell’insegnamento e si lascia andare a un’appassionata storia d’amore che, come ben sa, finirà rovinosamente.

E ben presto è facile capire che ognuno di noi è stato o può essere Stoner. Tutti coloro che hanno letto il romanzo e si sono arrabbiati per il suo non reagire, tutti coloro che l'hanno letto e gli hanno voluto bene per la sua vita semplice.

Per dirla come l'ha scritto Peter Cameron, che ha curato la postfazione del romanzo e a cui nulla è sfuggito: "La verità è che si possono scrivere pessimi romanzi su delle vite emozionanti e che la vita più silenziosa, se esaminata con affetto, compassione e grande cura, può fruttare una straordinaria messe letterararia".

È il caso di William Stoner.

Simona Arthemalle

(Unioneonline)

LA COPERTINA DEL LIBRO

La copertina del libro edito da Fazi Editore
La copertina del libro edito da Fazi Editore
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