Come sta, Gavino Ledda?

«Ho passato un’influenza brutta. Però bene, dai».

Come devo chiamarla? Professore, maestro, Gavino?

«Gavino va bene».

Possiamo darci del tu?

«Sì, sì».

Incontriamo Gavino Ledda nella sua casa di Siligo, la testa di un muflone scolpita nella trachite sull’arco che domina l’ingresso. Il caminetto è acceso davanti a un ambiente ordinatamente (o forse no) caotico. C’è anche un pianoforte. Ma ne parleremo più avanti.

Mai stato tentato dalla politica? Siligo è il paese di Cossiga. Maria Carta è stata consigliere comunale a Roma con Berlinguer.

«No, mi hanno tentato gli altri. Io sono nato scrittore. Sono rimasto analfabeta sino a vent’anni. Ma, il giorno in cui mio padre mi ha tolto dalla scuola dopo nemmeno un mese di prima elementare, mi sono detto: quando avrai vent’anni, inizierai da questo giorno. E così ho fatto. Volevo diventare uno scrittore. E ci sono riuscito. Ecco, mi avevano chiesto di candidarmi alla Camera dei deputati con il Pci. Ho rifiutato. O fai lo scrittore o fai politica. Lo scrittore deve scrivere veramente come si deve scrivere. Come scriveva nelle sue poesie Giacomo Leopardi».

È il momento delle donne, in politica, in Italia. Ci siamo arrivati tardi, pensando anche al ruolo delle donne, in Sardegna.

«Il ruolo centrale la donna ce l’aveva nelle pareti domestiche, in casa. Il matriarcato è stato soltanto in casa. E a letto. Aggiungo a letto perché così almeno sottolineiamo bene. Io non sono né maschilista né femminista. Io sono un uomo che deve fare l’uomo. E la natura ha dato al maschio alcune competenze e altre le ha date alla femmina».

È talmente il momento delle donne che, lamentano in tanti, stiamo “storpiando” la lingua italiana.

«Dobbiamo accogliere un concetto linguistico. Un nome, un sostantivo, che non c’è mai stato nella lingua italiana, non lo posso introdurre oggi perché ci fa comodo. In futuro si vedrà. Ci sono delle eufonie che l’animo del parlante non può accettare. Giorgia Meloni è donna. Ed è il presidente del Consiglio dei ministri. Non la presidente».

Giorgia Meloni l’ha già detto.

«E infatti lei ha ragione su questo. Può essere che abbia ragione anche su altre cose, su questo sicuro».

Gavino Ledda (foto Lorenzo Dessì)
Gavino Ledda (foto Lorenzo Dessì)
Gavino Ledda (foto Lorenzo Dessì)

Hai scritto un libro, il quarto, nel 1991, “Aurum Tellus”, che, qualche mese fa, ha vinto il premio “Cesare Pavese”. Dopo 31 anni.

«Così come quando ho fatto il film “Ybris”, nel 1982, e ci ho messo cinque anni a farlo, ho toccato dei punti che se lo sognavano e ancora se lo sognano di toccarli. Perché ci vuole coraggio per toccarli e una bella testa. Io non mi sto vantando, sia chiaro. Vedete “Ybris” e poi… È stato messo all’indice. La Rai ha avuto il merito di produrlo, io poi dovevo chiedere un finanziamento per farlo un po’ meglio. Ma io, sai, ho una dignità mia per cui non voglio chiedere. Però, sono due opere, “Ybris” e “Aurum Tellus”, che quando sono state fatte avevano giocato d’anticipo di almeno settant’anni. È stata una fortuna che Carlo Ossola se ne sia accorto e abbia detto anche non potevamo farne a meno quando mi ha consegnato il premio a Santo Stefano Belbo. Un orgoglio doppio, perché Carlo Ossola è la bandiera della lingua e della letteratura italiana nel mondo. E non lo dico io».

Come è arrivato al tuo libro?

«Grazie all’editore Scheiwiller, che gli mandò una copia nel ’91. Poi si sono rivisti al Salone del Libro quando è uscito “I cimenti dell’agnello”, nel 1995, che anticipava quello che avrei potuto fare dopo. Una volta morto Scheiwiller sono stato penalizzato molto, perché mi è mancato l’editore, l’editore serio, dico».

Ti dispiace se facciamo un viaggio nella tua infanzia tra Siligo e Baddhevrùstana?

«No».

Ci sei rimasto quindici anni. Cosa ti è mancato di più?

«Nei primi tempi la mamma. Come all’agnello, no? Appena viene svezzato cosa gli manca? Il latte. Ma anche la compagnia, l’affetto della mamma. E quindi me la sono dovuta inventare. Nella sfortuna la fortuna, perché ogni tanto mi facevo una mamma nuova. Una volta l’acqua, il fuoco, il sole. Alla fine avevo più madri io di quante ne ha avuto mai un bambino. Questo l’ho vissuto, io. Non è che la sto costruendo adesso con te».

E quando è iniziata la tua rivincita con la scuola?

«Rivincita? Non è che ho voluto sfidare… Io sono uno che, come i mufloni, quando lottano, lottano per vincere. “Padre Padrone” è una vittoria, “Ybris” è un’altra vittoria, “Aurum Tellus” un’altra ancora. “I cimenti dell’agnello”… Però io vorrei ancora vincere».

Gavino Ledda (foto Lorenzo Dessì)
Gavino Ledda (foto Lorenzo Dessì)
Gavino Ledda (foto Lorenzo Dessì)

Quando sei partito militare non sapevi leggere e scrivere.

«L’alfabeto mi hanno dovuto insegnare. Io avevo fatto in tempo a scrivere appena qualche vocale in quei venti giorni in prima elementare. Nell’Esercito ho fatto quattro anni. Sono dovuto partire volontario per fuggire da mio padre. Per fuggire! Non come Cecco Angiolieri… se fossi morte, andrei da mio padre; se fossi la vita fuggirei da lui. Cecco Angiolieri era uno spendaccione. Io non potevo permetterlo. Ma dovevo studiare. Nel ’58 sono partito. E, ironia della sorte, mi hanno mandato a Siena, il cuore della lingua italiana. Io parlavo solo in sardo. Mi dicevano mambrucco, deficiente. Pian piano, pian piano».

Hai recuperato in quanto tempo?

«In dieci anni mi sono laureato alla Sapienza di Roma. Terza media a Pisa, Ginnasio a Ozieri. Poi da privatista prima e seconda Liceo a Sassari e poi la Maturità».

Nel 1975 scrivi “Padre padrone”.

«No, nel 1975 ho finito di scrivere... Abitavo in via Farina, a Cagliari. Ero già assistente universitario».

Vinci il Premio Viareggio. Perché, secondo te?

«Non potevo non vincere. Oggi lo possiamo dire perché lo ha decretato il popolo. “Padre padrone” è un libro venduto come se fosse uscito ieri. In Germania…».

Tradotto in quaranta lingue.

«Sì, anche di più. Ma va bene quaranta, perché le altre non me le hanno mai dette».

Leggo da “Padre padrone”: «La presenza di mio padre ci zittiva e ci rendeva muti. Io e la natura. E ognuno si richiudeva nel guscio del proprio silenzio». Era così ingombrante la figura di Abramo? O eri tu in soggezione?

«La natura, che era mia madre, quando veniva mio padre, zittiva anche lei. Certo, succedeva che la natura ironizzasse su mio padre… La natura è la natura. Io avrei voluto ripassarci su questo libro. Ma non penso che la natura o la storia mi permetteranno di farlo, perché ci vuole tempo. Prendere “Padre padrone” e ripassarci di nuovo. Dovrei pregare che Gesù Cristo mi faccia campare quanto mio padre, quasi cento anni, e con la sua salute».

La descrizione dei rapporti sessuali con le pecore, in quel libro, ti è costata l’indignazione anche di molti sardi. Pentito?

«No…Però poi i sardi…».

Qualcuno disse: “Ledda ha rovinato l’immagine della Sardegna”.

«Ero talmente convinto di quello che ho fatto, della verità di queste cose, che era, come posso dire, una confessione poetica che dovevo fare, che faceva parte della storia. Così come fa parte della storia sarda e del mondo umano, purtroppo, che molti padri hanno approfittato della figlia. Vorrei scrivere un libro su questo. E poi i femminicidi. Un altro libro che vorrei scrivere. Ma non ce la farò».

“Padre padrone” diventa un film e i fratelli Taviani vincono la Palma d’oro al festival di Cannes. Era il 1977.

«Quella Palma d’oro è più mia che loro. Inizialmente il film mi aveva deluso. Poi, avendolo visto di nuovo, l’anno scorso, con calma, nelle Marche, dove avevo fatto una vacanza, l’hanno proiettato davanti a me e al pubblico, tutto sommato un danno così grave i fratelli Taviani non me l’hanno fatto. Solo che avrebbero dovuto intitolarlo Padre padrone e Gavino Ledda. O almeno Gavino. Perché Padre padrone c’è stato. Nel libro e fuori. E c’è ancora. Ma c’era anche Gavino. Gavino Ledda. Dirai, è solo un titolo. Ma un titolo è un suggerimento enorme».

Prendo in mano “Lingua di Falce”, edizione Feltrinelli 1978 (arriva dalla sconfinata libreria del collega Massimiliano Rais). Gavino Ledda si incuriosisce.

«È la prima edizione».

Leggo: «Nella mia ingenuità rimpiangevo che il sardo non fosse potuto diventare quella lingua internazionale che, forse, era stato quando, verso il secondo millennio avanti Cristo, le nostre navi commerciavano per tutto il Mediterraneo occidentale che, appunto, si chiamava mare sardo». Questo rammarico ce l’hai ancora?

«Lo sto superando, però ce l’ho. Io, purtroppo, ho speso troppo tempo per studiare il sardo. Quarant’anni. E non scrivevo. Avrei potuto scrivere altri venti libri. Ad onta di questa limba comuna, che Dio ce ne scampi e liberi».

Gavino Ledda (foto Lorenzo Dessì)
Gavino Ledda (foto Lorenzo Dessì)
Gavino Ledda (foto Lorenzo Dessì)

Hai insegnato all’Università di Cagliari.

«Linguistica sarda e Filologia romanza per tre anni».

Com’era il rapporto con gli studenti?

«Con gli studenti era perfetto. Con i professori meno».

Forse il tuo ego era ingombrante e i tuoi colleghi…

«Può essere. Quello che mi disturbava di più era che dicevano di chi sei? Di-chi-sei? Mi mandava in bestia. Io sono di me stesso. Io non sono nemmeno di Abramo Ledda, figurati».

Quindici anni tra Baddhevrùstana e Siligo. Perché, nel momento in cui hai preso il largo, hai sentito il bisogno di tornare qui?

«Come facevo a studiare il sardo? A New York non potevo. Dovevo tornare. Mi sono armato tra virgolette di tutti i libri di Max Leopold Wagner, il vocabolario di lingua sarda, la fonetica sarda. Questo però mi è servito per una scoperta nuova, la parola elettromagnetica. Mi spiego: sto cercando di colmare un vuoto che parte dalla battaglia di Cornus (nella costa oggi di Cuglieri, ndr) con i sardi guidati da Amsicora contro i romani del generale Tito Manlio Torquato. Dodicimila morti. Il sardo è nato da lì».

Parola elettromagnetica, dicevamo.

«Io definisco il sardo la lingua di ipse. Il sardo solo nelle lingue romanze è nella lingua di ipse. Gli altri sono nella lingua di ille. In francese “le” deriva da ille. Ipse, come pronome di terza persona… Ti ricordi quando traducevi le versioni di latino? Questo non l’ha mai indagato nessuno ma, psicolinguisticamente, senza scomodare nessuno, non ne ho bisogno. Semmai ci fosse Freud mi darebbe una mano, magari, capito. La lingua di ipse è diversa dalla lingua di ille. O no? Io questa ispità la voglio trasferire all’italiano e diventa la prima cellula elettromagnetica. Che cos’è l’elettromagnetismo? Non è altro che il percorso lungo un filamento degli elettroni e, a 90 gradi, c’è, intorno, il magnetismo, quasi che l’elettricità avesse due anime. Una che va in questo verso e una in quest’altro, a spirale. In tutte le direzioni a 360 gradi. Mentre un filo è percorso dagli elettroni, in tutte le direzioni del filo si crea il magnetismo. Elettromagnetismo. Simultaneamente».

Mai sentito la necessità di mettere su famiglia?

«Diciamo che è successo, però sono stato sfortunato. È morto il bambino. Distrofia muscolare. Io mi sono disperato, ho avuto quasi una sorta di complesso intimo, come se fosse colpa mia. Era il 1987. Ancora mi porto questa ferita».

E poi?

«E poi non l’ho più trovata. Ho avuto avventure, ma l’avventura è avventura. A meno che Gesù Cristo ancora non ti manda una storia che… Sono solo e questa solitudine incomincia a farsi sentire. Quando sto bene la colmo con la scrittura, ed è una bella cosa. Però nei momenti in cui la musa mi abbandona, sorgono questi problemi».

Qual è la cosa che ti piace di più della tua giornata?

«Quando sono in musa e scrivo. Ho un canovaccio in testa, però quando mi siedo e scrivo, sta nascendo lì».

Gavino, le tue passioni. La musica?

«Sì, la musica. Anche in “Padre padrone” c’è questa cellula. Il primo fuoco, la scintilla, è stata la fisarmonica».

Il pianoforte lo suoni tu?

«Lo suono io, però ancora sto facendo solo la parte teorica. Viene il maestro da tre anni. Diciamo che sono un po’ indietro».

Il calcio?

«Quando gioca la Nazionale. Fratelli d’Italia! L’inno di Mameli va bene».

Tu hai la tv a casa?

«Eccola lì».

Certo, scusa, era alle mie spalle. E il rapporto con il web? Con i social?

«Soltanto quando mi serve qualcosa. Magari poi scopri che è scritto da un cervello artificiale. Che mi va bene per sapere quante volte è caduto Garibaldi prima di arrivare a Teano. Magari lo sa. Però…».

Hai un tuo profilo sui social?

«Non ho niente, di proposito. Solo che lo mettono gli altri».

Perché non si trovano giovani disposti a lavorare in campagna?

«Le donne, in questo caso, dovrebbero dimostrare di essere veramente femmine, non femministe. Femmine. Prendere gli uomini e dire andiamo in campagna con le pecore. Solo così il maschio ci va. A me manca la femmina, per dire, no. La compagna, diciamo. Ora, io sono convinto che l’agricoltura e la terra verrà occupata di nuovo dall’uomo se anche la metà del cielo andrà in campagna. Punto e boh! Su mascu no bandada in campagna, perché c’è la femmina in città».

Che consiglio si sente di dare a un giovane, magari laureato e con l’azienda di famiglia, che ha dubbi su un futuro con bestiame e terreni?

«Senza femmina, cussu, se ne va a Casteddu. Ci vogliono le donne. Il matriarcato sulle zolle della terra va trasferito. Solo le donne, le donne del Tremila la possono salvare l’agricoltura. Perché il maschio no bandada… è montone il maschio. Perché mio padre a un certo punto ha portato mia madre in campagna? Perché voleva la femmina. Ha potuto fare altri quindici anni di campagna, mio padre. Quindi io dico feminas sardas e de su mundu… su trigu, il grano, muore. Questo è il concetto. Da qui ricaverei un libro, io, un libro».

Nessuno mi aveva mai dato questa risposta.

«Non te la può dare nessuno. Io, per fortuna, sono libero libero. Avrebbero vergogna di confessarlo. Io non mi vergogno. Bisogna trasferire il matriarcato in campagna. Questo non è stato mai fatto. Forse quando è stata inventata l’agricoltura, nella luna fertile, chi lo sa se sia stata una donna a piantare il primo seme. Dalle pareti domestiche sa femina deve pigare su mascu, beh… ti coddu in campagna. Ti coddu in sa pinnetta. O in su nuraghe. Qui c’è tutto».

Lo posso scrivere?

«E poite no? Però lo devi scrivere bene in campidanese. È una battutaccia, certo. Però qui c’è tutto. Le donne per fortuna vanno anche a fare anche le astronaute. Però l’agricoltura è il nostro futuro».

Il tuo rapporto con la campagna non si è mai interrotto.

«La prima pianta che c’è nel mio orto botanico è dell’Ottanta».

Baddhevrùstana?

«Ho comprato più vicino al paese. Baddhevrùstana nel 1978 era già in affitto, non era più nostra. Non me l’avrebbero venduta, penso, non lo so».

Tu vorresti a Siligo una stazione “Padre padrone”.

«Il sogno, soprattutto dopo la morte di mio padre, nel 2007. Ho cercato di fare un’associazione che si chiama Eurena, che vuol dire Europa».

Hai acquistato la casa di tuo padre.

«Ho riscattato tutto ai miei fratelli».

Quanti fratelli hai?

«Altri cinque».

Sono tutti in vita?

«No, una sorella è mancata».

Sto rileggendo “Padre padrone”. Sono arrivato qua…

«A metà».

A metà. Dai una buona ragione per leggerlo o rileggerlo.

«Intanto perché è un libro che non invecchia, perché non c’è cesura tra vivere e scrivere. “Padre Padrone” è figlio unico. Unigenito. Io l’ho scritto tra il ’70 e il ‘75’. Però ce l’avevo in corpo da Baddhevrùstana. Dal giorno in cui mio padre, nel ’45, mi porto con sé».

Che ricordo hai, oggi... 84 primavere, giusto?

«Ottantaquattro».

Che ricordo hai di tuo padre Abramo? E c’è stato un momento in cui lo hai capito?

«Io molto prima di scrivere il libro avevo già digerito tutto, anche i torti che mi aveva fatto. Perché la cultura era quella, la storia era quella. Ecco, cambiare spettava a me. E ho cambiato».

E comunque senza Abramo Ledda non ci sarebbe stato Gavino.

«Abramo Ledda aveva fatto il montone, eh. Tu dirai, senza montoni non ci sarebbero agnelli. Spetta all’agnello».

Tutto nasce da babbo che ti porta via da scuola.

«Tutto nasce dal montone! Perché leggerlo, dicevi. Perché questo è il primo libro che non è artificiale. Non c’è questa cesura, questo vuoto, questa capedine. È il prolungamento dall’azione alla scrittura. Altri non ne conosco, nemmeno uno. Forse la “Divina Commedia” di Dante, nel senso che l’Inferno è anche un prolungamento della sua vita. Io sono terrestre. O tellurico. Se un marziano viene a fare un romanzo sulla terra è marziano. Questo libro è terrestre, è tellurico. Gli altri libri che conosco io sono tutti… Sì, si salva qualche gemma. Magari Leopardi, bisognerebbe salvare qualcosa... e la gallina,
tornata in su la via, che ripete il suo verso, quella la sta vedendo, si capisce. Quella cellula l’ha vissuta lui. Li salviamo tutti, però, dai».

Quanto dedichi alla lettura?

«No, io non posso leggere gli altri. Perché avendo inventato una parola elettromagnetica non mi posso permettere di leggere gli altri. A stento riesco a leggere me stesso».

Leggi i giornali?

«Sì, i giornali sì. Ma spesso solo i titoli».

Cosa vedi nel tuo futuro?

«Io vorrei scrivere almeno altri tre o quattro libri per completare e dare sfogo a questi sudati studi sulla linguistica. Lingua bifronte, in sardo e in italiano».

E quale sardo? Il tuo?

«No, non è il mio, è il sardo che ho dovuto creare glottologicamente ritenendo, pensando e concludendo che il sardo è nato dopo la battaglia di Cornus. E quello che assomiglia di più a quella lingua è il logudorese. Però anche a Casteddu tuu si parlava – se guardi i documenti dell’archivio arcivescovile di Cagliari – il sardo logudorese. Quasi novecento anni fa. Poi c’è stato l’influsso dei pisani, degli spagnoli, dei piemontesi...»

Qualcuno ha avvicinato il tuo nome al Nobel per la Letteratura. Che effetto fa?

«Da un punto di vista dell’elecubrazione, della fatica, del sudore versato sugli studi linguistici e sull’anelito e alito e respiro e soffio che mi hanno dato mio padre e mia madre per la poesia e per la scrittura, sarebbe un riconoscimento penso corretto. Se poi Stoccolma non ci ha ancora pensato ha tutto il tempo per pensarci. A me farebbe molto piacere e penso non solo a me. Tu mi dici che la gente ne parla. È un lamento che tu hai raccolto. Perché la gente sa che quando nel ’69 mi sono laureato a Roma non si è laureato un uomo. Si è laureato il nuraghe. Anche».

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