Circa vent’anni fa, Federico Rampini fece scoprire agli italiani un’Asia nuova, in vorticoso cambiamento, con i bestseller “Il secolo cinese” e “L’impero di Cindia”. Oggi affronta con lo stesso approccio privo di pregiudizi il continente africano guidandoci nella sua riscoperta senza paraocchi, da testimone in presa diretta, attraverso reportage di viaggio e dando la voce a personaggi che fanno la storia.

Il suo ultimo saggio, infatti, intitolato "La speranza africana” (Mondadori, 2023, pp. 348, anche Ebook), ci racconta una terra ben diversa dalla narrazione corrente.

La terra del futuro, la definisce Rampini. Ma perché? Glielo abbiamo chiesto direttamente:

«L’Africa ha ancora una natalità elevata mentre gran parte del pianeta è in decrescita demografica, quindi, l’Africa sarà una fabbrica di giovani. È ricca di tutte le risorse di cui avremo bisogno per la nostra transizione a un’economia meno basata sul carbone e il petrolio, come minerali metalli e terre rare che usiamo per le tecnologie verdi».

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

Perché definisce l'Africa una terra sorprendente?

«Perché vista da vicino corrisponde raramente agli stereotipi prevalenti in Italia. Non è un continente segnato solo da tragedie, sciagure, calamità e disperazione. Gli africani non si sentono sull’orlo dell’Apocalisse come li descriviamo noi. Fra le tante sorprese che ci riservano, c’è la loro creatività culturale e artistica. Per chi abita a New York come me, ma anche a Londra o a Parigi, è evidente che l’Africa esporta talento in campi come la musica e il cinema, la letteratura e la pittura, la moda. Non è arte che nasce dalla sofferenza, anzi è piuttosto gioiosa e allegra. È un contrasto stridente con la narrazione che noi facciamo dell’Africa. È evidente che non l’abbiamo capita, o non la vogliamo capire».

Cosa non comprendiamo appieno dell'Africa noi occidentali-europei?

«Noi occidentali siamo paralizzati dai nostri complessi di colpa. Pensiamo che tutto ciò che accade oggi in Africa abbia la sua spiegazione nel colonialismo. È un altro modo per sentirci importanti, per illuderci di essere ancora il centro del mondo. Un tempo eravamo dei conquistatori, dominavamo vaste zone del pianeta, che pretendevamo di civilizzare. Oggi vogliamo mantenere l’illusione della nostra centralità con questo nuovo egocentrismo: crediamo di essere i responsabili di tutto il male, di tutte le ingiustizie e insofferenze dell’umanità. Così, per esempio, nel pensiero progressista americano lo schiavismo viene descritto come il peccato supremo della razza bianca; ma l’Africa ebbe grandi imperi che prosperavano sulla tratta degli schiavi molto prima che vi comparisse il primo uomo bianco. La nostra autoreferenzialità nasconde una nuova forma di razzismo, che si crede progressista: descriviamo l’Africa come l’eterna preda, l’eterna vittima, e così la ‘infantilizziamo’, parliamo delle sue classi dirigenti e delle sue élite come di bambini che non sanno quello che fanno, vengono manovrati e manipolati da potenze esterne. Nulla di più falso. Esiste un protagonismo africano, nel bene e nel male: chi compie le scelte più scellerate, dai colpi di Stato alle ruberie su vasta scala, è consapevole e responsabile. Le classi dirigenti africane sono abili nel mettere in competizione le potenze esterne, non subiscono affatto. Nel mio libro questo emerge dalle voci di tanti protagonisti africani, che ho incontrato e che ci offrono la loro versione, molto diversa dalla nostra».

Cosa può rappresentare l'Africa per l'Italia?

«Una grande opportunità, a condizione che la smettiamo di abbracciare la rappresentazione ossessiva e monotematica dell’Apocalisse africana. La stessa bomba demografica viene esagerata dagli italiani, che ignorano le nuove tendenze della natalità: le buone notizie sull’Africa vengono censurate. Dobbiamo anche abbandonare la cultura degli aiuti umanitari, che non hanno dato i risultati sperati: l’Africa ha assorbito venti volte il valore del Piano Marshall con cui fu ricostruita l’Europa post-bellica. All’Africa servono le nostre imprese e i nostri investimenti, non la carità. Però noi scoraggiamo le aziende perché chi investe in Africa viene accusato a priori di saccheggiarla. Così la abbandoniamo a cinesi, indiani, sauditi, russi, turchi».

Che tipo di sguardo hanno gli africani verso l'Occidente e l'Europa?

«Uno sguardo unico dell’Africa su di noi non esiste. Le Afriche sono plurali, questo è un continente immenso la cui superficie supera Stati Uniti Cina e India messi insieme, ha un miliardo e mezzo di abitanti, 54 nazioni, duemila etnie e gruppi linguistici. Racconto il loro sguardo su di noi attraverso tre viaggi emblematici che ho fatto in tre nazioni molto diverse: Egitto, Etiopia, Sudafrica. Un filo comune è certamente un sentimento antioccidentale, figlio anche della propaganda cinese e russa. Anziché contrastare questa propaganda, noi la assecondiamo».

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