Per intervistare Massimo Popolizio gli diamo un appuntamento telefonico "Non de mattina presto che dormo. Qua la notte se fa' tardi!".

È appena terminata al Teatro Sociale di Trento la lunga tournée di "Copenaghen", spettacolo cult diretto da Massimo Avogadro, con Umberto Orsini e Giuliana Lojodice a completare il magnifico trio, che va ormai in scena da 18 anni.

Nel frattempo anche "Ragazzi di Vita", diretto dallo stesso Popolizio, vincitore del premio della Critica e dell'Ubu 2017 come Miglior Regia sta girando le principali piazze italiane.

Sarà soddisfatto dei premi ricevuti per il suo "Ragazzi Di Vita".

"Al giorno d’oggi sono in molti a ricevere premi, e in Italia, poi, ce n’è una quantità pazzesca e vengono dati con facilità. Prima di avere un Ubu io ci ho messo 10 anni! Sono comunque contento del riconoscimento perché c'è chi ai premi dà molta importanza e anche questo ha permesso ciò che considero il vero regalo: una lunga tournée (che terminerà il 30 marzo, ndr) e il grande consenso di pubblico che i ragazzi in scena stanno ottenendo".

Le sue regie portano stilisticamente alcuni segni di Luca Ronconi, suo grande maestro d'arte, con cui ha fatto più di 25 spettacoli. In cosa invece sente di prenderne le distanze?

"Alcuni elementi che riprendono il suo stile ci sono per forza, un po' come l'imprinting delle anatre di cui parla Lorenz: è quello di cui sono cresciuto e mi sono nutrito. Non ho mai cercato però di copiare il linguaggio di Luca, in primis perché era talmente geniale che sarei stato un pazzo a provarci, e poi perché ho cercato di fare qualcosa di originale. Spesso mi sono chiesto se Ronconi avrebbe apprezzato il mio lavoro, dentro di me l'ho eletto a giudice del mio operato, un'asticella molto alta che ho sempre cercato di tenere viva per avere un riferimento in un percorso di crescita personale".

Tornando a "Ragazzi di Vita", oltre alla crudezza di Pasolini c'è forse, tra le righe, come una sorta di malinconia dei tempi passati?

"Assieme ad Emanuele Trevi, drammaturgo dello spettacolo, dicevamo che oggi per ritrovare quella forza vitale di cui Pasolini si era innamorato bisognerebbe andare forse in qualche periferia in India. Da noi ora non ci sono più quell'ingenuità e quella forza prorompenti. Già nel romanzo successivo di Pasolini però, 'Vita Violenta', l'ingenuità sparisce per lasciare spazio ad una crudeltà atroce, e la frase finale del Riccetto 'Io je voglio bene a Riccetto', che si giustifica per aver lasciato affogare il piccolo Genesio nelle acque del fiume senza intervenire, è un preambolo di quello che diverrà lo spietato Tommasino del libro successivo.

Non si tratta di uno spettacolo nostalgico, piuttosto ho voluto recuperare certi canoni della romanità quasi 'genetici', che sono poi stati usati anche nel grande Cinema d’un tempo e che in qualche modo sono riconoscibili da tutti perché appartengono ad un patrimonio culturale tipicamente italiano.”

Cosa ne pensa della Roma di oggi?

"Roma oggi è una città disastrata, diventata cattiva. Sono stato adolescente negli anni '70, erano i tempi delle Brigate Rosse, i terribili anni di piombo. Ma nonostante questo, persino quel periodo era più vitale di adesso, eravamo uniti, eravamo solidali, eravamo vivi, eravamo, non so come dire, noi. Nei condomini a Roma ci si aiutava, ora nei condomini a Roma ci sono solo B&B: tutto è connesso al profitto".

Lei ha debuttato nel 1983 con il "Santa Giovanna" di Ronconi. Ad oggi cosa è cambiato nel panorama teatrale italiano?

"Posso dirle quello che non c'è più. Non ci sono più compagnie di grandi attori, non ci sono più grandi spettacoli che lasciano il segno, non c'è più il pubblico di una volta che aveva capacità critica, analitica e comparativa: è come un magma che riceve e assorbe qualsiasi cosa".

Un'altra immagine del regista (foto Roberta Crivelli)
Un'altra immagine del regista (foto Roberta Crivelli)
Un'altra immagine del regista (foto Roberta Crivelli)

È uno specchio della società imbruttita?

"Magari! Se lo fosse la gente nel vedersi si sentirebbe inorridita. Invece si è sempre costretti ad edulcorare, ad abbellire la realtà per seguire un consenso, e non sempre lo si fa con stile e capacità. Il problema poi è che il teatro oggi è visto come un hobby e non più come un mestiere".

In molti la considerano il più grande attore sulle scene italiane degli ultimi trent'anni...

"No, si sbaglia, forse uno tra più bravi…"

Sicuramente è un esempio di arte recitativa che anche molti attori giovani portano a modello. Anche un artista preparato come lei soffre di ansia da palcoscenico?

"In passato ne ho sofferto e per combatterla ho dovuto prepararmi con maggiore rigidità degli altri, proprio per dominare l'ansia con l'estrema consapevolezza di ciò che avrei fatto in scena. Oggi la mia paura più grande invece è quella di giudicarmi troppo, e di farlo anche mentre recito, perdendo così il divertimento. Sono abbastanza grande poi per capire che quando uno viene considerato bravo ci sono ancora più responsabilità, perché questo non è un mondo che perdona, e tutti sono disposti a ricordarsi di un tuo errore, piuttosto che delle cose belle".

Parliamo del film su Falcone e Borsellino "Era D'estate" diretto da Fiorella Infascelli, girato in Sardegna tre anni fa. Come è stata l'esperienza?

"Siamo stati all'Asinara per quaranta giorni di riprese. Mi ricordo la luce brillantissima del cielo che ci faceva da sfondo in quelle giornate. Oltre che essere un film molto bello, girarlo è stata umanamente e naturalisticamente un'esperienza pazzesca, sicuramente segnante".

Roberta Crivelli*

*attrice teatrale - Milano
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