Nella notte tra il 27 e il 28 luglio del 1993 tre autobombe esplosero quasi contemporaneamente. La prima a Milano, in via Palestro. Disintegrò il Padiglione d’arte contemporanea e uccise cinque persone, ferendone dodici. La seconda, a Roma, danneggiò la Basilica di San Giovanni in Laterano e gli edifici adiacenti provocando una decina di feriti. L’ultima colpì, sempre a Roma, la basilica di San Giorgio al Velabro. Fu il culmine della strategia di attacco allo Stato messa in atto da Cosa nostra e iniziata nel maggio del 1992 con l’attentato a Giovanni Falcone e alla sua scorta. Una strategia proseguita con l’uccisione di Paolo Borsellino nel luglio dello stesso anno, con il fallito attentato al giornalista Maurizio Costanzo, con la strage di via Georgofili a Firenze del maggio 1993, in cui persero la vita cinque persone e fu seriamente danneggiato il complesso degli Uffizi.

Obiettivo della mafia era piegare le istituzioni, costringerle a una sorta di trattativa in un momento in cui lo Stato era debole per la fine delle Prima repubblica, Tangentopoli e la crisi dei partiti tradizionali. Per farlo si ricorse alle bombe, alle uccisioni di figure simbolo (Falcone, Borsellino a cui si aggiunse anche don Pino Puglisi), agli attacchi alla Chiesa e al patrimonio artistico nazionale, nella consapevolezza che l’opera d’arte e il patrimonio artistico hanno un valore identitario, sono le radici di ogni popolo.

Fu, quindi, una vera e propria strategia della tensione sul modello di quella attuata dai gruppi eversivi di destra negli anni Settanta del Novecento, una strategia complessa che il giornalista Ferruccio Pinotti ricostruisce in maniera magistrale nel suo libro-inchiesta “Attacco allo Stato” (Solferino, 2023, Euro 19,50, pp. 320. Anche Ebook). Nel libro Pinotti evidenzia come intorno alle stragi del 1993, nonostante i trent’anni trascorsi e le numerose sentenze giunte all’ultimo grado di giudizio, permangano ancora molti misteri e opacità, tanto che sono tuttora in corso inchieste sui “concorrenti esterni” per la collocazione delle bombe esplose a Firenze, Milano e Roma.

Nella cornice storica e investigativa si stagliano, però, gli indiscussi strateghi mafiosi di quei fatti drammatici. Innanzitutto, Matteo Messina Denaro, a lungo latitante, simbolo di una mafia in evoluzione che di lì a poco si trasformerà da Cosa nostra in una “Cosa nuova”, fatta di legami con i “salotti buoni” dell’imprenditoria, di infiltrazioni nel mondo dell’alta finanza, di proiezioni e interessi internazionali. Oltre a lui emergono figure come i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i boss di Brancaccio. Tutti e tre, Messina Denaro e i Graviano, irriducibili uomini di fiducia del boss Totò Riina. E depositari di indicibili segreti.

Ferruccio Pinotti restituisce così il vivido affresco di una torbida vicenda criminale, soffermandosi sui rapporti che Cosa nostra intrattiene con entità esterne al suo perimetro. Racconta i possibili coinvolgimenti a livelli diversi, i rapporti ambigui tra uomini delle istituzioni, servizi segreti e ambienti mafiosi. Emergono così, soprattutto dalle carte processuali, i legami inconfessati e ancora oggi inconfessabili, tanti silenzi, tanti "si dice".

Soprattutto riporta i racconti e le testimonianze inedite di chi ha provato a fermare quei mafiosi, di chi ne è rimasto vittima, di chi si impegna tuttora a rintracciare i colpevoli. "Attacco allo Stato”, al di là del suo indubbio valore come inchiesta giornalistica, è un invito rivolto a noi tutti a non considerare mai “verità” e “giustizia” parole retoriche o prive di significato.  Nonostante le difficoltà e i decenni trascorsi, continuare a cercare delle risposte e possibilmente provare a ristabilire un minimo di giustizia - se verità ci appare parola troppo forte - ha senso. Vale il discorso per i procedimenti contro i criminali nazisti e per le loro efferate gesta sul finire del secondo conflitto mondiale: la disumanità vigliacca di chi mette bombe non cade in prescrizione, né tanto meno può essere oggetto di oblio.

La copertina
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