Per molto tempo i ragazzi di Salò sono stati considerati il male assoluto. Hanno incarnato tutte le colpe storiche del fascismo facendo da schermo ai tanti opportunisti che durante il Ventennio hanno accumulato ricchezze e onori, ma non si sono compromessi con la Repubblica sociale. Si è dovuto arrivare quasi alla fine del Novecento perché prima il presidente della Camera Luciano Violante, poi il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi sdoganassero la questione degli uomini e delle donne che scelsero di combattere sotto le bandiere della repubblica mussoliniana. Una questione, quella dei repubblichini, che continua ad animare il dibattito, spesso in maniera strumentale, tra demonizzazioni e riabilitazioni ugualmente improprie.

Lo storico Gianni Oliva nel suo saggio "La bella morte” (Mondadori, 2021, pp. 312, anche e-book) ci propone invece una lettura storiograficamente equilibrata, rintracciando prima di tutto le motivazioni dei volontari che scelsero di continuare a combattere accanto a Mussolini una guerra persa. A Gianni Oliva chiediamo allora come è nata l'idea di scrivere un libro incentrato su coloro che aderirono alle Repubblica sociale:

“Rientra in un filone di ricerca sul ‘passato che non passa’ cui lavoro da anni: i crimini di guerra del Regio Esercito, la resa dei conti del 1945, le foibe, adesso i ‘ragazzi di Salò’. Non si tratta di ‘ribaltare’ i giudizi storici, meno che mai di ‘riabilitare’ i progetti sbagliati: si tratta di storicizzare e, in questo caso, di ricondurre le scelte successive all’8 settembre al clima culturale e morale nel quale sono maturate”.

Ma chi erano i ragazzi di Salò?

“I ragazzi di Salò erano giovani, adolescenti o poco più, forgiati dall’educazione del Ventennio, cresciuti come ‘figli della lupa’, ‘balilla’, ‘avanguardisti’: per molti di loro l’armistizio dell’8 settembre fu un tradimento, un voltafaccia senza giustificazione morale, un saltare sul carro dei vincitori. Come scrive Curzio Malaparte: ‘prima buttammo i fucili, poi andammo a vincere con gli americani la stessa guerra che avevano già perso con i tedeschi’. Molti giovani e giovanissimi (comprese molte ragazze che diventarono ‘ausiliarie’) si indignarono per la scelta del re e dei generali, per l’opportunismo dei troppi professionisti dell’abiura e si buttarono dalla parte sbagliata. Il fatto è che nel settembre 1943 non era semplice capire quale fosse la parte giusta e quale quella sbagliata!”.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro

C’erano altre ragioni dietro questa scelta di campo?

“C’era la convinzione che i valori nei quali erano stati educati si difendessero stando con Mussolini e con la Repubblica sociale: l’onore, la fedeltà alla parola data, la coerenza etica, l’orgoglio patriottico, il combattentismo, il coraggio erano esattamente il contrario di ciò che espresse l’atmosfera dell’armistizio. Non c’è da stupirsene: basta sfogliare un qualsiasi sussidiario degli anni Venti-Trenta, un qualsiasi giornale per ragazzi e si ritrova un messaggio chiaro. L’Italia fascista è figlia della grandezza delle legioni romane ed è chiamata ad affermare quella grandezza antica sui campi di battaglia del presente; il maggior onore di un uomo è cadere anonimo per la grandezza della patria e il maggior orgoglio di una madre sacrificare il figlio a quella stessa grandezza: la guerra è il momento in cui i popoli misurano la propria freschezza e la propria virilità; le trincee del Carso e del Piave sono il retroterra da cui attingere lo stimolo dell’esempio e la voglia di emulazione. Quando tutti i maestri a scuola, tutti i podestà in piazza, tutte le letture, tutti i filmati dell’Istituto Luce, tutte le immagini propongono quello stesso modello comportamentale, non si può che crescere a immagine e somiglianza del regime. Per questo una generazione giovane, in una fascia di età dove l’impeto e l’orgoglio hanno la meglio sulla ragione, scelse la continuità rappresentata da Salò.

Cosa dobbiamo intendere con l’espressione “la bella morte”?

“L’espressione ‘la bella morte’ è tratta dal titolo di un libro autobiografico di Carlo Mazzantini, A cercare la bella morte: giovanissimo arruolato volontario nelle Brigate Nere di Pavolini, Mazzantini ricostruisce l’atmosfera nella quale si muove con i suoi camerati, tutti consapevoli che la guerra è persa ma che bisogna cadere in piedi, ‘saper morire’, come la retorica di regime ha insegnato. In questo senso ‘la bella morte’ è un mito combattentistico radicato, proveniente dall’esperienza degli arditi della Grande Guerra, ripresa dai paracadutisti di El Alamein. Non è un mito solo italiano: ad esempio, si ritrova uguale nel sistema valoriale della Legione Straniera francese”.

Perché la scelta dei ragazzi di Salò non può essere semplicemente ignorata?

“In primo luogo, per un problema numerico: sino alla primavera 1944 i volontari di Salò erano assai più numerosi di quelli partigiani. Pur nell’approssimazione dei dati, si può parlare di oltre 200 mila volontari. In secondo luogo, non si devono ignorare per un problema di prospettiva. Nella rielaborazione della memoria dell’Italia repubblicana, Salò rappresenta il ‘male’ assoluto. Male assoluto è stato il progetto di Salò, ma non i volontari: il progetto di Salò è stato lo stesso della guerra 1940-43, quello degli alpini della ritirata di Russia, dei fanti che hanno occupato la Grecia, dei carristi del deserto egiziano. Chi ha aderito alla Repubblica sociale ha combattuto la stessa guerra che sino al 7 settembre 1943 avevano combattuto tutti i coscritti italiani. Demonizzare Salò è stato un espediente comodo per non fare i conti con il passato, con le responsabilità dei tanti (troppi) che del fascismo sono stati complici (intellettuali, imprenditori, burocrati dello Stato, magistrati, ufficiali), con le colpe di una classe dirigente che è transitata dal fascismo alla democrazia senza pagare pegno e senza nemmeno chiedere scusa. Pensare che il ‘male’ sia stato il diciottenne saloino è servito come foglia di fico dietro cui si sono nascosti tutti coloro che nel Ventennio hanno avuto onori, carriere, guadagni e che alla caduta del Duce hanno scoperto di essere antifascisti. Come ho detto all’inizio, nessuna riabilitazione, ma storicizzazione: credo sia un modo per conoscere meglio il nostro passato e forse anche per capire come mai siamo finiti in un presente così opaco dal punto di vista morale”.

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