Quel meme sembra quasi un manifesto programmatico: "Gli antichi senza titoli di studio", si legge, "costruirono ponti eterni. Poi arrivarono gli ingegneri". Parole accompagnate da due immagini, apparentemente, contrapposte: in alto un ponte romano, sotto un viadotto moderno interrotto da una voragine. Un manifesto programmatico, si diceva. Il manifesto della "società dell'ignoranza" o, per citare il noto film del 2006 di Mike Judge, il manifesto di "Idiocracy".

L'ignoranza che, in passato, era considerata un disvalore, ora viene ostentata quasi con orgoglio. Nella "società dell'ignoranza", chi sa viene additato, con totale disistima, come "professorone", "intellettualoide". Elementi, secondo questa chiave di lettura, sono protagonisti di chissà quale oscuro disegno. Elementi saccenti che, però, non hanno studiato nella "scuola della strada" o nell'Università della vita.

Ma siamo davvero sicuri che l'ignoranza sia un valore? Di certo, non lo era, oltre cinquant'anni fa, don Lorenzo Milani che, in un'oscura frazione di Vicchio (in Toscana), creò un'esperienza educativa innovativa: la "scuola di Barbiana" non aveva voti o pagelle, bocciature o promozioni. L'unico scopo era dare sapere a quei bambini destinati a una vita da contadini. Emblematica la scritta sul muro della scuola: "L'operaio conosce 100 parole, il padrone 1000, per questo è lui il padrone".

Un'affermazione di principio? Assolutamente no. Parecchi anni più tardi, lo studioso Gabriele Borg, docente al dipartimento di Economia della Brown University, pubblicò uno stadio decisamente interessante: secondo i suoi calcoli, il reddito in termini reali di chi ha un titolo di studio superiore, è salito negli ultimi cinquant'anni del novanta per cento. Quello di chi, invece, non ha concluso l'high school è diminuito del dieci per cento. Situazione simile anche in Italia: secondo l'Istat, le famiglie di laureati percepivano, nel 2013, quasi 38.000 euro l'anno. Cifra più che doppia rispetto a quella (poco più di 16.500 euro) raggiunte dalle famiglie in cui il capofamiglia ha un basso titolo di studio.

Ma le parole, la cultura non servono soltanto a evitare una condizione economica sfavorevole. In certi casi, salvano anche la vita. Una "verità" scoperta dall'antropologo e psichiatra statunitense Robert I. Levy: negli anni '60 del secolo scorso, trascorse oltre due anni a Tahiti per cercare di capire un fenomeno apparentemente incomprensibile. In quello che gli occidentali considerano un paradiso in terra, c'era una percentuale di suicidi decisamente alta.

Levy analizzò tutto, la cultura, le tradizioni, le condizioni psichiche degli abitanti, la lingua. E trovò la risposta proprio nella "reo Tahiti", l'idioma parlato dagli isolani.

In quella lingua, esistono parole che indicano il dolore fisico: gli isolani, per intendersi, erano perfettamente in grado di dire che avevano mal di denti o mal di testa. Ma, in quella lingua, non c'è alcun vocabolo che indica il dolore psicologico. Termini, per intendersi, come tristezza, malinconia, ansia, malumore, depressione, non esistono. Ma anche i tahitiani, come tutti gli esseri umani, possono andare incontro a quei problemi. Solo che chi li conosce è in grado di elaborarli e di cercare una soluzione (magari rivolgendosi a un esperto o, semplicemente, facendo un'attività rilassante). Gli isolani, invece, non erano assolutamente in grado di capirli. E andavano incontro a un cortocircuito mentale da cui non riuscivano a uscire. L'unica soluzione per tanti diventava il suicidio: la morte sembrava l'unico modo per far finire quel dolore insopportabile.

Un fenomeno che Levy chiamò ipocognizione. E con il quale, seppure in proporzioni differenti, si deve fare i conti anche in Italia. A sostenerlo è stato, in una recente intervista su "La Repubblica" Gianrico Carofiglio. «Quando, per ragioni sociali, economiche, familiari, non si dispone di adeguati strumenti linguistici; quando mancano le parole che dicono la paura, la fragilità, la differenza, la tristezza; quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, allora manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su se stessi. La violenza incontrollata è uno degli esiti possibili, se non probabili, di questa carenza. I ragazzi sprovvisti delle parole per dire i loro sentimenti di tristezza, di rabbia, di frustrazione hanno un solo modo per liberarli e liberarsi di sofferenze a volte insopportabili: la violenza fisica».
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