Non esiste praticamente nessun paese o città d’Italia che non ricordi in qualche modo Giuseppe Garibaldi. In una ricerca fatta in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità italiana, è emerso che nel nostro Paese esistevano nel 2011 ben 4.247 vie e piazze dedicate all’Eroe dei due mondi. Staccati gli altri protagonisti del Risorgimento con Mazzini a quota 3.307 “dediche”, Verdi a 2.937 e Cavour 2.891. Inoltre, nel nostro Paese, vi sono più di 1200 lapidi che ricordano soggiorni o discorsi di Garibaldi. Insomma, un mito onnipresente, capace di colpire l’immaginario già dei contemporanei come dimostra il volume Giuseppe Garibaldi.

Cavaliere dell’umanità (Ibis, 2022, Euro 10, pp. 168) che raccoglie scritti di tre ammiratori eccellenti e coevi dell’Eroe dei due mondi. Si tratta, infatti, di Francesco Crispi, primo ministro del Regno a fine Ottocento, del maestro del verismo letterario Giovanni Verga, e di Giovan Battista Cuneo, autore nel 1850 della prima biografia di Garibaldi (biografia presente nel volumetto Ibis).

Cosa ci raccontano gli scritti di questi contemporanei del grande condottiero e patriota? Ci dicono che nelle vicende di un popolo, ci sono momenti così unici che la storia diventa subito mito e i suoi protagonisti leggenda. Per l’Italia, è accaduto questo durante il Risorgimento e con l’unità nazionale. I patrioti che si erano distinti in quegli anni – Garibaldi in primis ma anche Cavour, Mazzini, Pellico, i Fratelli Bandiera ecc. – divennero figure da celebrare. In questo modo veniva creata una narrazione collettiva e condivisa che doveva servire a rafforzare l’unità di una nazione ancora giovane e molto divisa.

Per questo i protagonisti del Risorgimento vennero trasfigurati in veri e propri monumenti, privi di sfaccettature. Così Cavour divenne il tessitore, anzi l’architetto politico dell’unita nazionale. Mazzini era il pensatore, il filosofo del nostro Risorgimento. Garibaldi, l’eroe senza macchia, né paura. Nella vulgata, inoltre, i tre erano sempre andati d’amore e d’accordo, quando nella realtà erano spesso su posizioni antitetiche.

La figura che venne maggiormente canonizzata, allontanandola dalla realtà, fu proprio quella di Garibaldi. Divenne un eroe buono non solo per tutte le piazze, per tutti i gusti e le stagioni, quando invece nel corso del Risorgimento il condottiero era considerato un esempio da seguire soprattutto da quei patrioti che volevano un’Italia repubblicana, figlia più delle idee di Mazzini che di quelle di Cavour. Garibaldi alla fine aveva accettato che l’Unità si realizzasse sotto la dinastia dei Savoia, ma monarchico non era certo diventato. 

Nella retorica dell’Italia di fine Ottocento questa immagine di Garibaldi antimonarchico e quasi giacobino naturalmente scomparve. Del generale, il poeta Giosuè Carducci, cantore dell’Italia di fine Ottocento, scriveva: “Nacque da un antico dio della patria, mescolatosi in amore con una fata del settentrione…”. Il generale era il simbolo dell’Italia impavida, che sapeva farsi valere anche sul campo di battaglia. Punto.

Per questa ragione Francesco Crispi poteva scrivere: “La biografia di un uomo - sia pure un grande statista od uno scienziato - è subito fatta. Ma non si può tesser la vita di Garibaldi senza fare la storia italiana degli ultimi 50 anni. E non basta! Se Garibaldi, sin dalla prima sua giovinezza, ebbe un culto per la patria, se i suoi pensieri, i suoi studi, le sue cure, le sue opere non ebbero altro scopo - l'anima sua generosa spaziava nell'infinito; il dovere per lui non aveva limiti di territorio, egli era il cavaliere dell'umanità”. Queste parole sono del 1884 e oramai si glissava tranquillamente sul fatto che nel 1862 fossero state le truppe del regno d’Italia a ferirlo a una gamba nella battaglia dell’Aspromonte per fermare la sua avanzata verso Roma. Alla fine, Garibaldi ebbe un seggio al Parlamento come ricompensa ma nella realtà lo si isolò fino alla morte. La retorica post-risorgimentale preferiva di gran lunga le amnesie, ai ricordi e, soprattutto, agli eroi scomodi.

La copertina
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