«Un giurista, un politico, un cattolico. E soprattutto un sardo, un sassarese, profondamente legato alla sua città natale. Dirigente del Partito popolare all’indomani della Grande Guerra e poi dirigente della Democrazia cristiana dopo il secondo conflitto mondiale. Fu undici volte ministro, due volte presidente del Consiglio, infine, capo dello Stato. Un uomo di governo, un legislatore, più che un leader di partito. Il suo nome si lega alla riforma agraria, una delle più importanti riforme nella storia d’Italia dal 1861 in poi».

La sintesi del percorso umano e politico di Antonio Segni nelle parole di Salvatore Mura, docente di Storia delle Istituzioni politiche all’Università di Sassari e direttore della Fondazione Antonio Segni. Ha curato il Diario e gli scritti politici del politico sassarese e darà alle stampe nei prossimi mesi il volume “Antonio Segni e i giuspubblicisti. Un carteggio inedito (1956-1964) al centro dell’incontro in programma il prossimo 6 dicembre alle 16.15 nella sala convegni dell’Archivio storico della Presidenza della Repubblica (Palazzo Sant’Andrea).

Il Diario

«La pubblicazione del Diario - spiega -  risale ormai a dieci anni fa. È  una fonte importante per comprendere il rapporto fra le gerarchie ecclesiastiche e Segni. Le note e le lettere che allegò al Diario nel marzo 1960 ci forniscono elementi in gran parte nuovi. Il cardinal Tardini, segretario di Stato vaticano, si dichiarò contro ogni governo sostenuto dall’astensione dei socialisti. L’apertura a sinistra avrebbe portato − avvertì l’autorevole porporato − alla scissione interna della Dc. Nel 1960 Segni si trovò al centro delle pressioni del Vaticano. Cedette, convinto della necessita di non procedere immediatamente all’apertura a sinistra. Tuttavia scrisse a Giuseppe Siri, presidente della Cei: occorre mettere alla prova i socialisti; se non per altro, per una questione di strategia politica: una risposta negativa da parte del Psi avrebbe marcato la scelta dei socialisti di non differenziarsi dai comunisti; una risposta positiva, invece, avrebbe separato il Psi dal Pci, e reso la sinistra italiana più debole».

La Riforma

Antonio Segni è stato l’artefice di una riforma fondiaria che ha lasciato un segno profondo e che ha infranto vecchi equilibri sociali ed economici. «Secondo il comunista Giorgio Amendola, - ricorda Salvatore Mura - la legge “stralcio” (e con essa la Cassa per il Mezzogiorno) aveva dato un colpo alle vecchie classi latifondiste e rotto il vecchio equilibrio delle classi dominanti in Italia, l’equilibrio del blocco industriale e agrario. La riforma offrì un lavoro e una vita stabile a più di centomila famiglie, aumentò la produzione, favorì lo sviluppo della cooperazione, costituì una sorta di potente incentivo allo sviluppo economico generale».

Sassari

Il suo rapporto con l’Isola è sempre stato stretto. Frequenti i viaggio verso Sassari da Roma. «Non ci sono prove - avverte lo storico - che Segni pensò di trasferirsi definitivamente a Roma una volta diventato un politico nazionale (a differenza di Francesco Cossiga e di altri, come Enrico Berlinguer). Viaggiava continuamente, e il fine settimana tendenzialmente lo passava a Sassari. Difese i diritti dell’isola e curò l’interesse dei sardi, utilizzando i mezzi che aveva. Minacciò le dimissioni pur di far avanzare il progetto di legge di finanziamento del Piano di Rinascita. Il rapporto per la Sardegna, però, era ben altra cosa rispetto al suo rapporto con Sassari. La sua città era per Segni come una madre è per un figlio. Un rapporto unico, speciale».  

Il politico

Definirlo un conservatore, secondo Mura,  è un giudizio semplicistico: «Per molti uomini politici è sufficiente un aggettivo per definirli: conservatore, progressista, riformista. Per Antonio Segni un aggettivo non basta. Non tutto si può semplificare. L’interpretazione articolata della sua opera mi sembra l’unica possibile. Al Quirinale, sì, fu un presidente conservatore, perché avrebbe voluto conservare gli equilibri politici che si erano affermati durante gli anni Cinquanta: la Dc al centro, con i piccoli partiti (Psdi, Pli, Pri) attorno».

Al Quirinale

Furono anni tormentati e non solo perché il suo nome venne associato al tentato colpo di Stato. «Al di là di ogni interpretazione, quel che appare evidente è che l’estate del 1964 gettò un’ombra sull’intera vita di Segni. Condizionò l’approfondimento l’opera di un uomo delle istituzioni che aveva lasciato un’impronta profonda del suo passaggio nell’Italia del dopoguerra. Neppure dopo la sua morte, avvenuta a Roma il 1° dicembre 1972, la polemica si sopì completamente. Come un fiume carsico di tanto in tanto compariva e sommergeva di accuse il presidente Segni. Meritò tutto questo? Commise degli errori politici, ma aveva saldi convincimenti. Gli accadde di essere avanti rispetto al processo politico-sociale, quando elaborò l’ambizioso progetto della riforma fondiaria generale, ma si trovò indietro sul percorso riformista, durante la stagione del centro-sinistra». Il ricordo  di Antonio Segni oggi a cinquant’anni dalla morte: «Non va certamente mitizzato. Va ricordato - conclude Salvatore Mura - come un uomo che si è impegnato con tutte le sue forze per costruire l’Italia repubblicana. Non tanto il suo pensiero politico, che naturalmente appartiene ad un’epoca che non esiste più, ma il suo impegno, il suo grande coraggio, la sua passione possono essere un esempio». 

© Riproduzione riservata