Castiadas, riaperto il museo dell’antico carcere
L’ex struttura carceraria è visitabile tutti i giorni al mattino e alla seraPer restare aggiornato entra nel nostro canale Whatsapp
Nel vecchio carcere di Castiadas i ricordi di quel passato triste si avvertono ancora. Carcerati finiti in prigione per reati vari, da quelli comuni fino agli omicidi e alle rapine. Qualcuno è stato sepolto nella parte vecchia del cimitero di Castiadas.
E i prigionieri hanno anche dato tantissimo da queste parti, contribuendo alla bonifica del territorio, allora popolato di zanzare, fino a trasformarlo in terreni agricoli prima del boom turistico.
Fra le spesse mura del carcere, con le finestre bocca di lupo, anni fa il Comune ha creato un museo, ora nuovamente visitabile (tutti i giorni, dalle 9 alle 12 e dalle 18 alle 21) dopo recenti lavori di restauro.
La gestione è stata affidata all’associazione locale Nuraghitours. «Il carcere – spiega il sindaco Eugenio Murgioni – è davvero da visitare. Un monumento del nostro passato che ha segnato la storia di Castiadas. Negli anni sono stati fatti diversi investimenti per opere di restauro che hanno consentito di salvare la struttura».
Era il 1875 quando trenta forzati e sette guardie carcerarie, lasciata la casa penale di San Bartolomeo a Cagliari, sbarcarono sulla spiaggia di Sinzias tra Villasimius e Castiadas. Il gruppo era guidato da Eugenio Cicognani: su mandato del ministero dell'Interno, l'ispettore aveva il compito di porre la prima pietra della nuova colonia penale agricola.
La scelta cadde su un'area fra i torrenti di Gutturu Frascu e Bacu sa figu. E qui i forzati e le guardie fissarono la loro prima dimora costruendo una capanna di legno. Nacque poi la più grande delle colonie penali agricole d'Italia. Una struttura che sino al 1955 ospitò migliaia di condannati: intorno, migliaia di ettari di terreno, coltivati dagli stessi detenuti.
Ma era anche un luogo di dolore, di isolamento e di disperazione. Ai trenta originari sbarcati nella baia di Cala Sinzias, nel tempo se ne aggiunsero centinaia: secondo il Corriere di Sardegna nel 1876 a Castiadas c'erano già 300 detenuti con le prime strutture murarie capaci di accoglierne addirittura 500.
Per la costruzione furono utilizzati graniti e calcare di Castiadas. Oltre alle prigioni, a fine 1876 funzionavano già la falegnameria, le officine di fabbri e di carpentieri e persino una infermeria. Sorsero anche le strade ed una decina di distaccamenti. Con gruppi di lavoro che addirittura dimoravano in case di legno montate su ruote: in ogni casa, dieci forzati. Tutti in giubba rossa.
Una vita durissima, dicono le cronache, ma anche produttiva. Sorsero i poderi. Quello di Masone Pardu ospitò cento prigionieri: operavano su 250 ettari producendo legumi e cereali, frumento, avena ed erba medica nel podere Manno. A San Pietro 40 forzati coltivavano gelsi, ulivi, aranci, mandorli e limoni. A Minniminni erano attive quattro stazioni carbonaie. I poderi di Genna Spina, Bovile e Ortodeso erano stati invece destinati all'allevamento dei bovini, ovini e suini. Le notizie erano comparse anche sulla Gazzetta agricola.
Una lunga opera di bonifica e di trasformazione fondiaria. Con la malaria che in questo frangente fece anche delle vittime, assieme alla tubercolosi.
A guadagnare di più erano gli innestatori (0,55 lire giornaliere nel 1900), le paghe più basse agli spargitori di concimi che al giorno guadagnavano 0,32 lire.
Durissime le punizioni per gli indisciplinati. Fra queste, la cella oscura con pane e acqua. E la cella di isolamento per sei mesi: non mancarono i suicidi per disperazione. E ci furono anche forti polemiche sui giornali dell'epoca.