Il 9 maggio del 1978 finiva la vicenda umana di Aldo Moro.

In quella giornata di esattamente quarant’anni fa le Brigate rosse facevano ritrovare nel bagagliaio di una Renault 4 rossa il cadavere dello statista democristiano rapito cinquantacinque giorni prima in via Fani a Roma, dopo che la sua scorta era stata massacrata.

Fu la tragica conclusione di un calvario umano ma allo stesso tempo l’epilogo di una vicenda drammatica che traumatizzò l’Italia tutta in quei giorni della primavera del 1978. Un trauma destinato a segnare profondamente il destino della nostra nazione, come racconta a L'Unione Sarda Marco Damilano, direttore del settimanale “L’Espresso”, nel suo Un atomo di verità (Feltrinelli, 2018, Euro 18,00, pp. 272. Anche EBook), dedicato appunto ad Aldo Moro e alla sua tragica fine.

Una morte che, scrive Damilano, segnò la fine della politica in Italia: “Via Fani è il luogo del nostro destino. La Dallas italiana, le nostre Twin Towers. Nel 1978, l’anno di mezzo tra il 1968 e il 1989. Tra il bianco e nero e il colore. Lo spartiacque tra le diverse generazioni che cresceranno tra il prima e il dopo: il tutto della politica – gli ideali e il sangue – e il suo nulla”.

Fu la fine della “Repubblica dei partiti”, per usare la definizione dello storico Pietro Coppola, fu, il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, l’evento che ha condizionato la storia politica italiana fino anche ai nostri giorni. Allo stesso tempo il sequestro, i tanti misteri che lo hanno accompagnato e che ancora in parte lo accompagnano hanno di fatto condannato all’oblio quello che il leader democristiano è stato, quello che ha rappresentato e quello che ha fatto come politico, intellettuale, uomo di legge.

Quei cinquantacinque giorni hanno calato il sipario su una stagione politica e, soprattutto, cancellato l’uomo e il politico Moro.

Ma chi era veramente Aldo Moro?

Era soprattutto un politico che scommetteva più sull’intelligenza e sulle idee che sulla forza dei numeri come fa anche capire una sua frase da cui è nato il titolo del mio libro: “Datemi un milione di voti e toglietemi un atomo di verità e io sarò perdente”. Era poi un politico che aveva come preoccupazione principale allargare le basi della democrazia in Italia, basi che considerava piuttosto fragili. Per questo puntava sul dialogo, sull’inclusività di opinioni anche molto lontane tra loro. Moro riteneva che tutto ciò che era parte della società dovesse essere portato, avere rappresentanza nel Parlamento che in quegli anni era l’istituzione più importante del nostro Paese. Nel libro, con l’aiuto delle carte personali di Moro, in gran parte conservate non dallo Stato ma nell’archivio privato dell’ex senatore Sergio Flamigni, provo proprio a recuperare l’uomo e il politico Moro. Provo a “liberarlo”.

In che senso?

Provo finalmente a liberarlo dalla prigionia del “caso Moro”: il sequestro, i cinquantacinque giorni di prigionia, le tante ipotesi, i misteri. Quei cinquantacinque giorni sono in un certo senso pietrificati nella memoria collettiva. Tutti o quasi sanno che Moro è stato rapito e poi ucciso, l’immagine che tutti conoscono è quella del suo cadavere nel bagagliaio oppure le foto che accompagnavano i comunicati delle Brigate rosse. Credo che dopo quarant’anni tutti noi abbiamo il diritto e anche il dovere di compiere quello che lo Stato all’epoca non riuscì a fare: liberare Moro dalla sua prigionia. Moro non può essere racchiuso solo nell’epilogo della sua vicenda umana.

Perché, come dice anche il sottotitolo del libro, il leader democristiano può essere associato alla fine della politica in Italia?

Perché a mio parere è nel 1978 che comincia la fine dei partiti tradizionali, dei partiti di massa che hanno fatto la storia politica dell’Italia per tanta parte del Novecento. Era stato grazie a quelle formazioni politiche che la gran massa degli italiani si era avvicinata alla politica, un universo dal quale era stata esclusa sia nell’Italia post-unitaria, sia durante il fascismo. Per più di tre decenni l’Italia era stata la Repubblica dei partiti, una Repubblica la cui “morte” comincia nel 1978 e diventa definitiva nel 1992-93. Moro mise a punto un progetto di autoriforma dei partiti e della classe politica – entrambi già in profonda crisi negli anni Settanta del Novecento- , e quel progetto morì con lui. Scomparso il leader democristiano non ci furono altri tentativi concreti di riforma.

La Seconda Repubblica nacque però proprio con l’idea di superare quella Repubblica così legata a quei partiti di massa…

Ha cercato di sostituire la Prima Repubblica, ma se prendiamo una certa distanza dagli eventi di questi ultimi venticinque anni ci rendiamo conto che la sostituzione non è avvenuta. È finita una fase importante della storia politica italiana, si è creato un vuoto che dura oramai da un quanto di secolo e che non è mai stato riempito.

Moro può ancora aiutarci a riempiere questo vuoto?

Molto è cambiato. Non c’è più la società in cui operava il leader democristiano e non ci sono più i partiti della sua epoca. Ci resta il suo pensiero, l’idea che si debba sempre ascoltare quello che si muove nella società. L’idea di una politica che si interroga e che include, che mira a risolvere i problemi prima di tutto e non a cercare contrapposizioni. Una politica che deve essere antitesi del potere, dello sfoggio di forza, della ricerca a tutti i costi del consenso.

La copertina del libro
La copertina del libro
La copertina del libro
© Riproduzione riservata