Il 16 febbraio 1926, sul terzo numero de L’Italiano, comparve un motto destinato ad avere fortuna: “Mussolini ha sempre ragione”.

Inserito con qualche variante nel Vademecum del perfetto fascista, edito dall’editore Vallecchi, lo slogan coniato da Leo Longanesi finì a grandi caratteri sui muri delle case italiane.

Lo scopo del giornalista romagnolo era quello di esercitare una satira, di sviluppare un paradosso che avrebbe dovuto far notare lo scenario di cartapesta che il regime stava costruendo con la propaganda.

Ma Mussolini, a cui quel motto piacque parecchio, ci credette, e, peggio, ci credettero gli italiani.

Perfino oltreoceano, nella democratica America, il duce italiano riscosse consensi: “Nella sua persona si fondono le doti di Mazzini con quelle di Cavour”, scriveva il New York Times l’11 maggio del ’24.

Mussolini governò da solo per vent’anni; nemmeno nel direttorio del Partito fascista era possibile trattare argomenti politici.

Quando era necessario prendere decisioni di fondamentale importanza, anche nelle ore più concitate del regime, Mussolini arrivava abitualmente alle riunioni di gabinetto con l’ordine del giorno già pronto e deciso. Nella sua visione, i ministri erano soltanto degli esecutori, non dei consulenti.

Anche alla Camera, all’arrivo del duce, i deputati e il pubblico delle gallerie si levavano in piedi per sommergerlo d’applausi.

A Palazzo Venezia, i ministri dovevano attraversare l’immensa sala del mappamondo per raggiungere la grande scrivania di Mussolini di corsa, per poi ritirarsi con passo svelto dopo aver preso gli ordini.

In questo clima da commedia, quando nel giugno del ’40 l’Italia dichiarò guerra a Francia e Inghilterra, essa era completamente disarmata.

Mussolini aveva assicurato al Paese “otto milioni di baionette bene affilate e impugnate da giovani e intrepidi forti”, ma non poteva nascondere che c’era la stoffa necessaria per vestire solo un milione di soldati.

Dopo aver firmato l’armistizio con una Francia già sconfitta dalla Germania nazista, invitò i giornalisti a Villa Torlonia, affinché ammirassero il suo stile tennistico in una partita giocata contro un professionista.

Essi dovettero assistere increduli ad una carnevalata pietosa; non riusciva a eseguire il rovescio e colpiva la palla dal basso. Per sua fortuna l’arbitro era il segretario del Partito fascista, Achille Starace, il quale dopo un solo set proclamò Mussolini vincitore col punteggio di sei a due.

Artefice e vittima del suo mondo di finzione architettato con cura, e con alle spalle un esercito composto da artiglierie vecchie di vent’anni e da aeroplani che raramente riuscivano a decollare, il duce decise di dichiarare guerra agli Stati Uniti d’America.

Intanto alle tredici dell’11 dicembre ’41, i romani vennero sorpresi da un’inaspettata, grande notizia: i meglio informati erano convinti che la Russia avesse chiesto l’armistizio e che Mussolini era pronto a dare l’annuncio dal balcone di Palazzo Venezia. Tutti, eccitati e affamati, attesero il duce nella piazza colma.

Alle quindici, ecco finalmente Mussolini: “Le potenze del Patto di acciaio, l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista, sempre più strettamente unite, scendono oggi a lato dell’eroico Giappone contro gli Stati Uniti d’America”.

La folla, abituata da vent’anni ad applaudire, si liberò in un grande applauso. Ma sarà l’ultimo. “It is very tragic”, confessò l’ambasciatore americano a Roma.

“Ancora un’altra guerra, ancora un altro nemico da insultare sui giornali”, sospirò Mario Pannunzio. “Dobbiamo discorrere di questioni militari delle quali ben poco capiamo, che evadono dal nostro mestiere.

È come se entrassimo in un’altra persona più stupida di noi. Alla fine della giornata si è stanchissimi per la fatica di aver sostenuto un peso inutile”, esclamò Alberto Moravia.

Pochi giorni dopo, Mussolini chiese separatamente a Longanesi e a Giovanni Ansaldo cosa pensassero dell’intervento: “Io gli ho chiesto”, disse Ansaldo, se ha mai veduto l’elenco telefonico di New York. E lui non m’ha saputo rispondere, ha solo scrollato le spalle”. “Io invece”, replicò Longanesi, “gli ho suggerito di guardarsi attentamente Life e lui m’ha risposto che sbagliavo, che è più bella la rivista del Popolo d’Italia.

Non c’è scampo. Abbiamo perso la guerra”.

Stefano Poma
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