P atrik Zaki è un simpaticone. Lo disse, con sorriso sornione e tono ironico, Paolo Mieli quando il giovanotto egizio-bolognese, per intercessione del governo italiano, fu graziato e riottenne la libertà. Da grande giornalista, che interpreta ogni evento in prospettiva, aggiunse: «Imparerà due parole d’italiano e verrà candidato in qualche lista». Aveva capito che Zaki è un buon serbatoio elettorale. Le sue drammatiche vicissitudini hanno emozionato l’opinione pubblica; dargli il voto sembrerà a certuni un dovuto risarcimento. La sinistra, che vede il buon affare, da allora lo corteggia. Il centrodestra, per manifesta indisponibilità del soggetto, ha rinunciato a dargli confidenza. E lui, il mancato martire, ne ha preso le distanze. Tutto secondo la regola dell’ingratitudine. Della quale fa parte anche la sua farneticazione antioccidentale espettorata sui social. Definisce Netanyahu «serial killer» e lo accusa di comportamenti nazisti. Non sembra impressionato dalla strage di civili israeliani perpetrata dai terroristi di Hamas né dalla caccia all’ebreo: uno spettro agghiacciante che torna dal passato più buio della storia. Nessuna pietà, nessuna compassione. Il richiamo della foresta è stato per lui istintivo. Studiare nella più antica università d’Europa può arricchirti di nuove conoscenze. Ma non ti cambia i cromosomi.

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