S iccome in questi giorni un po’ diluvia e un po’ fa un caldo boia, i più banali hanno ricominciato col mantra che “bisogna vestirsi a strati”. E poi, come fosse un concetto difficile, ecco la nota esplicativa: “A cipolla, praticamente”.

Prima o poi bisognerà farglielo presente: l’uomo si veste a strati da sempre, per forza di cose. L’alternativa quale sarebbe? Nudi con il colbacco di visone? Tanga e moon boot? Tutto&nulla? La maglietta è uno strato e la felpa è un altro, la camicia è uno strato e la giacca pure, che cosa ci trovano di così astuto e innovativo in quel suggerimento scemo che bisbigliano come un antico segreto di famiglia?

Ma il problema non è solo nel fastidio che le frasi fatte ispirano. Lo capisci quando senti i colleghi che cagliaritaneggiano chiacchierando in pausa caffè, con grande scialo di doppie e di raddoppiamenti fonosintattici (“non voglio mica lalluna”). Lì capisci, lì ti spieghi certe cose che vedi per strada. Pantaloni che si fermano di botto a nord del malleolo, infradito incarnite nei piedi grassocci, giacchette da torero tagliate a fil di reni, certe ciabatte col tacco. Hanno capito, povere stelle, che “bisogna vestirsi astratti”. Cioè, come dice il dizionario, senza corrispondenza con la realtà oggettiva e con i dati dell’esperienza sensibile.

Taddannu.

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