D opo secoli di oculata gestione del suo patrimonio, il vocabolario della lingua italiana rischia di andare fuori controllo. Negli anni degli eccessi dell’autarchia economica e finanziaria del fascismo anche il lessico diventò autarchico. Per circa un ventennio ritenemmo la nostra lingua autosufficiente: poche importazioni e, quelle poche, adattate; nessuna contaminazione dall’estero, solo qualche eccezione nel campo scientifico. Nacquero neologismi non sempre armonici, il Futurismo ne fu la culla e la balia. Dopo la seconda guerra mondiale le frontiere si aprirono ai commerci, compresi quelli delle parole. Poi, come talvolta accade dopo un periodo di assolutismo, quando la libertà riconquistata degenera nel libertinaggio, il nostro vocabolario da troppo rigido divenne prima flessibile, poi permissivo e infine terra di conquista delle armate linguistiche straniere, in particolare l’angloamericana. Preferiamo esprimerci con parole d’importazione scansando quelle italiane equivalenti. I giornalisti ne abusano a scapito della comprensibilità. Non ci sono più argini all’invasione. Persino l’Accademia della Crusca ha allargato le maglie della sua rete di contenimento. Perciò i pochi puristi sopravvissuti l’accusano d’essere diventata troppo compiacente: sintomo virale del nostro Stato di tolleranza.

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