C ostituzione italiana, articolo 21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». I padri costituenti erano reduci dall’esperienza traumatica della dittatura fascista durante la quale la libertà d’opinione era stata conculcata. Quella norma mira a impedire che ciò accada di nuovo. Perciò non pone limiti, non elenca eccezioni. Chiunque può dire e scrivere ciò che vuole purché non offenda la dignità di altri. Non sono vietate castronerie, assurdità, panzane. Per le quali si può essere legittimamente corbellati. È stato così fino all’avvento, qualche anno fa, delle strampalate teorie e regole censorie del “politicamente corretto”: un lungo elenco di parole e concetti vietati, l’ipocrisia che prevale sulla franchezza, la finzione sulla sincerità. Ai trasgressori non si infligge una condanna penale, bensì l’ostracismo, la derisione, la gogna; non il confino territoriale ma quello sociale. Così a un generale, finora considerato senza macchia e eroe di guerra, che in un suo libro alterna ovvietà condivisibili a discutibili opinioni personali, i politici “molto corretti” e i pasdaran loro fiancheggiatori vogliono infliggere la morte civile. Ciò che l’articolo 21 voleva evitare che accadesse, accade. Il libero pensiero è in libertà vigilata.

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