L ’altra sera in tv Briatore cercava di convincere un’incredula Berlinguer che il male dell’Italia sono i falegnami che mandano i figli a studiare anziché tenerli a bottega. È un po’ il secondo tempo dell’invettiva berlusconiana contro chi voleva “rendere uguali il figlio del professionista e il figlio dell’operaio”, curiosamente poco valorizzata fra le tante citazioni celebrative udite in morte del Cav. Il fastidio di Briatore apparentemente è di ordine pratico (non dev’essere riuscito a rifare la boiserie alla cuccia del cane perché i predestinati alla pialla erano tutti all’università a lezione di qualcosa) ma il retrogusto ideologico è sempre quello: occhio a studio e cultura perché possono modificare la piramide che oggi al vertice - con scialo di yacht, babbucce di raso e pellicce di congiuntivo morto – vede lui e quelli come lui.

Ma a parte che da Pinocchio a Gesù la storia è piena di figli di falegname arrivati alla fama dopo aver rinnegato l’attività paterna, la mobilità sociale non è una trovata bolscevica. È l’ossigeno di una nazione. Se nessuno avesse almeno una chance di sfuggire al karma professionale e patrimoniale di famiglia avremmo una classe dirigente addirittura più asfittica e massonica di oggi e dei precar-proletari perfino più frustrati. Quanto a Briatore, farebbe il maestro elementare come il suo papà e la sua mamma. Per forza poi la gente non manderebbe i figli a scuola.

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