C redeva, Enrico Letta, che il campo-largo fosse il campo dei miracoli: pianti un voto e ne spuntano cento. Invece è stato un campo-santo. Un cimitero, le cui lapidi raccontano la vita breve di molti illusi. E di alcuni illusionisti. «Queste sono alleanze che siamo costretti a fare» aveva detto per giustificare l’imbarco di specie politiche diverse tra loro litigiose. Il meteo dei sondaggi annunciava burrasca: per approdare al porto governativo aveva bisogno di una ciurma numerosa. Andò a raccattarla tra i vogatori di barchini alla deriva. Poco male se tutti parlavano lingue diverse. Purché remassero. L’ingaggio era allettante: poltrone, poltroncine, seggiole e salvagente. Tra i compagni d’avventura serpeggiava diffidenza reciproca, come sempre accade nelle ciurme raccogliticce. Quando il comandante fece l’appello Calenda uscì dallo stato ipnotico in cui era caduto e ebbe un sussulto: o io o Di Maio, o io o Fratoianni. Non possumus, gli rispose il segretario del Pd dagli orecchi da coniglio e, a suo dire, occhi di tigre. E lui abbandonò la barca. Fremiti e pianti a sinistra, inni e cachinni a destra. «Quindici uomini sulla cassa del morto» era il canto piratesco degli avventurieri del romanzo “L’’isola del tesoro” di Robert Stevenson. C’è già chi lo canticchia quando incontra Enrico Letta.

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