P oi magari Messina Denaro ci stupirà, e nel quarto o nel quinto covo di questa sua latitanza che ormai sembra un’immobiliare spunterà un ritratto di Wittgenstein, una caricatura di Woody Allen.

Ma finora quel che è venuto fuori, quanto ad arredi e totem domestici, è ciarpame. Passi il magnete di don Vito Corleone con la scritta “Il padrino sono io”: appiccicato sul frigorifero del padrino vero ha un suo spessore ironico che ne riscatta la banalità da gadget per turisti. Ma il resto, santo cielo, fa impressione per quanto è cheap. I disegni delle belve, con quell’estetica da terza media, quel tratto enfatico da Lanciostory dei poveri. Ma soprattutto i poster di Brando e Pacino nel Padrino: questi non sono ironici per nulla, non sono citazioni ammiccanti. Sono piattamente celebrativi.

È questo che spiazza: il mafioso che si beve la narrazione pop sul proprio conto. Quei santini blockbuster raccontano un’esistenza immersa nella crudeltà senza alcuna elaborazione, senza alcun puntello culturale se non il folklore più smaccato. Gira e rigira, siamo sempre alla banalità del male.

Forse è una lezione per noi persone qualunque, dispettose ma non spietate, nervose ma non sanguinarie, golose d’amaro ma quello medicinale delle serie tv cattivone: non è che se sciogli un bambino nell’acido devi essere una persona speciale.

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