I l Corriere racconta la storia del ministro afgano Sayed Sadaat che un anno fa, quando Trump decretò il ritiro, si rifugiò in Germania e ora fa il portapizze a Lipsia.

In fondo, ridacchierà qualcuno, è il contrario di Di Maio, passato in fretta dal San Paolo, dove proponeva aranciate, alla Farnesina. Ma ormai oltre ai rinfreschi da stadio Di Maio si è lasciato alle spalle i gilet gialli e la retorica kitsch sulla povertà abolita: non è diventato uno statista – a parte il resto gli manca l’età - ma da orecchiante sveglio gestisce gli Esteri con una certa compostezza, con l’atlantismo, l’europeismo e il multilateralismo come punti cardinali. Eppure non manca chi – anche a sinistra, vedi De Luca – camuffa da meritocrazia il proprio classismo e continua a dargli del bibitaro.

Un dato interessante del dramma afgano è come l’irrompere dell’Isis abbia trasformato per l’Occidente i talebani in interlocutori. Disgustosi e imbarazzanti, ma interlocutori. Non sarebbe male se dalle immense cronache di questi giorni i nostri leader imparassero a non delegittimarsi l’un l’altro acidamente per far digerire agli elettori il fatto di governare tutti insieme un’emergenza nazionale. Certo, non basta assistere allo spettacolo hegeliano della Storia che passa a cavallo per diventare di colpo saggi, ma un po’ più pacati forse sì (poi Toninelli invece è rimasto Toninelli. Sennò esageriamo).

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