M a che differenza c’è tra la tivù commerciale e la Rai? Una: il canone, che da quando Renzi ebbe l’idea di incorporarlo nella bolletta dell’energia elettrica tocca il portafogli del 60 per cento delle famiglie. Si dirà che la tivù pubblica “fa cultura” e su questo, dagli anni di “Non è mai troppo tardi” del maestro Manzi che insegnava a leggere e a scrivere, quante chiacchiere! Bisognerebbe chiarire una volta per sempre ciò che si vuol fare e non quello che si è fatto 60 anni fa. La cultura non è più monopolio della tivù pubblica, la “fanno”, forse meglio, i giornali, le altre tivù, i libri. Il problema non è il teatro di De Filippo ma il teatrino della politica di cui la Rai non riesce a liberarsi. Una scelta va fatta: eliminare il canone e confrontarsi con il mercato da cui la Rai con la pubblicità attinge il 40 per cento e, solo per essere servizio pubblico, dalle famiglie il resto. La politica lasci gestire la Rai come un’azienda. Un servizio è o non è pubblico a seconda non dell’azionista ma dell’ascolto e del credito che si è guadagnato. Al cittadino che guarda il telegiornale non importa sapere chi ha dietro Mentana o la Maggioni ma quello che fanno vedere i fatti e come li raccontano. La televisione non è buona solo perché è pubblica e perché trasmette il concerto, dovrebbe anche non vuotare le tasche alla gente.

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