C ome è bella e strana la fotografia di Putin davanti alla salma di Gorbaciov nella camera ardente. Un gioco di luci livido e potente, più Kubrick che Caravaggio, rende quasi fosforescente il morto, e il biancore del sudario fa sembrare che il corpo sia immerso in una capsula criogenica. Di lato, velato da un’ombra dark, sta il vivo. E il capo chino nell’omaggio è anche lievemente piegato di lato, come se Putin oltre a ossequiare l’ultimo segretario del Pcus si stesse anche accertando di sottecchi che sia morto davvero.

L’uomo che capì che l’era del comunismo senza diritti era finita sta immobile e orizzontale. L’uomo che ha capito che si può efficacemente controllare i russi anche senza il comunismo lo guarda.

Beh, si rilassi pure: è morto davvero.

E anzi era sopravvissuto per molto tempo a se stesso, o almeno a quello che rappresentò per tutti noi che lo osservavamo dall’altra parte del Muro. Molto prima di Gorbaciov era morta quella deliziosa, imperdonabile ingenuità di credere che davvero la libertà sia liberante, che il potere possa fare spazio alla ragione e che alla lunga la mano invisibile del mercato serva a tagliare le catene. In quella camera ardente giace la giovinezza, forse l’adolescenza della politica europea. Nell’ombra un uomo la guarda.

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