V ent’anni fa si fantasticava di desalinizzatori per potabilizzare l’acqua del mare: non si parlava d’altro, per combattere la persistente sete dell’Isola. Esistono in Israele, ma se là avessero le nostre piogge, produrrebbero fiori che nemmeno a Sanremo e ci farebbero il Festival della canzone ebraica, trattori compresi. Qui un po’ piove ancora: sempre meno, ma certo non è come a Tel Aviv.

«Togliamo l’acqua per mezza giornata»: così si fece negli anni Settanta. Poi la fase «servono nuovi invasi», e servivano: realizzati. Di seguito il momento di connettere tra loro i bacini: fatto pure questo, e dei desalinizzatori si è smesso di parlare.

Tanto è stato fatto, ancor più è stato detto, ma l’acqua continua a non bastare. Perché quelle opere non erano sufficienti per dar da bere, far fare le docce e far coltivare i terreni a oltre tre milioni di sardi (più turisti). Ok, i residenti nell’Isola sono meno di 1,6 milioni, ma contano doppio perché gli acquedotti bucati disperdono ancora oggi il 50% dell’acqua. Diventa difficile anche farsi un caffè, per quanto scorretto.

Abbanoa continua a sostituire le reti, ma a questi ritmi serviranno tanti anni. Dunque, curiamo giustamente gli invasi, ma siamo lenti nel sostituire gli acquedotti-colabrodo: servirebbe un Piano Marshall, un Pnrr post (anzi, durante) guerra secca, invece non hanno capito un tubo. Anzi, non li hanno capiti tutti.

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