O ggi le islandesi, compresa la premier, non andranno al lavoro e non alzeranno un dito neanche in casa: sciopero generale contro la violenza di genere e contro il gender gap, che a orecchie stanche di inglese può sembrare un’espressione compiaciutamente esterofila, ma quando scopri che il tuo collega uomo è pagato meglio di te per fare le stesse identiche cose si illumina di improvvisa comprensibilità. Qualcuno penserà che le islandesi siano messe molto male se arrivano a una protesta così secca. In realtà secondo le statistiche sono messe meglio di tutte: lì la parità di diritti (nel concreto degli stipendi, delle cure familiari e del diritto di girare per strada senza il rimprovero che così ci si espone a un’aggressione) è molto più vicina che altrove. È questo che rende possibile uno sciopero da noi abbastanza impensabile: lottare contro un’ingiustizia ti irrobustisce politicamente. E ti rende evidente che “quasi uguali” è un modo più lungo per dire diseguali. Certo, qualche migliorista dirà che se guidi la classifica mondiale dell’eguaglianza di genere, se un analogo sciopero spinse già nel 1975 a grandi progressi e la parità salariale non è mai stata così vicina, magari dovresti vedere il bicchiere mezzo pieno. Ok, è mezzo pieno e anzi lo è quasi del tutto. Semplicemente oggi - e chissà come si dice in islandese - lo bevo io, e poi lo lavi tu. Prosit.

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