"Nei miei sogni di bambino / la chitarra era una spada / e chi non ci credeva era un pirata". Sono passati quasi quarant’anni da quando Edoardo Bennato cantava questi versi e i casi sono due: o la spada ha perso il filo oppure il mondo è stato conquistato dai pirati. Non solo le nuove generazioni non hanno idea di chi sia Bennato (né Battisti, il cui repertorio è finalmente approdato su Spotify) ma la chitarra, che nella versione elettrica è l’emblema stesso della rivoluzione rock che ha segnato l’immaginario della musica popolare nel Novecento, sembra essere entrata in crisi.

Crisi d’immagine e di vendite: è di un anno e mezzo fa, causa ricavi in flessione e forte indebitamento, l’avvio della procedura di bancarotta per la Gibson, un marchio che da fine Ottocento significa liuteria di alto livello. Parliamo di chitarre leggendarie: le iconiche Les Paul e ES335, la sulfurea Sg (nota in Italia come “diavoletto”), le futuristiche Explorer e Flying V. La procedura si è conclusa dopo sei mesi, con un riassetto societario e un cambio di proprietà, ma la vicenda ha reso evidente una crisi fino a quel momento avvertita da pochi: una crisi che, per alcuni osservatori, è irreversibile.

Possibile? La storia di uno strumento musicale mitologico, brandito per decenni con orgoglio e furia (come la spada di un eroe, appunto) da emuli grandi e piccoli del capostipite Chuck Berry, è davvero arrivata al capolinea?

La Fender Stratocaster, uno degli oggetti di design più universalmente riconoscibili del secolo scorso, è definitivamente roba da museo?

La chitarra elettrica è entrata nell’immaginario di chi è stato ragazzo negli ultimi quattro decenni del Novecento sulla scorta di esempi come Jimi Hendrix, Jimmy Page, Jeff Beck, Eric Clapton, Carlos Santana, Ritchie Blackmore, Eddie Van Halen: i cosiddetti guitar heroes. Ma anche di tanti musicisti che, pur non essendo virtuosi, attraverso quelle sei corde tese tra un ponticello e un capotasto, quelle vibrazioni catturate, tradotte in elettricità e amplificate, sono riusciti a raccontare emozioni, rabbia, disperazione, voglia di riscatto: e c’è dentro di tutto, il soul e il funk, il punk e il post-punk, la new wave e il grunge. Tra la fine degli anni Novanta quacosa ha cominciato a cambiare. E oggi eccoci qua, a chiederci non più se ma perché la chitarra elettrica abbia smesso di esercitare fascino sulle giovani generazioni.

Da un lato le classifiche parlano chiaro: da anni, ormai, negli Stati Uniti e in Europa soltanto una parte assai marginale dei brani musicali più ascoltati e scaricati del momento è stata realizzata con impiego di chitarre. Per il resto, che si parli di R&B o hip hop o trap, non sono previste corde pizzicate o percosse con un plettro.

Oggi i chitarristi più ammirati per capacità tecniche ed espressive sullo strumento, si scovano in contesti che richiamano un pubblico numericamente assai ridotto rispetto ai generi di massa. Nel blues Joe Bonamassa, John Meyer o Gary Clark Junior, in contesti jazzistici o parajazzistici Bill Frisell, Jim Campilongo, Julian Lage, Nels Cline; quest’ultimo, come componente della band americana Wilco, è peraltro l’autore di quello che forse è il più recente solo chitarristico memorabile: quello della canzone “Impossible Germany”, dall’album “Sky blue Sky”, del 2007, una sequenza di note che il pubblico, come si è visto anche nelle recenti tappe italiane, a Milano e Padova lo scorso settembre, canta a memoria. Anche qui, però, si parla di un’eccezione (di nicchia) che non fa la regola.

La realtà è che, come ha ammesso perfino uno dei video-blog chitarristici più seguiti in Italia, “Febbre da chitarra”, bisogna dare per assodato "il ruolo ormai quasi del tutto marginale del nostro strumento nella musica di oggi".

E c’è di più. In questi giorni è uscito il nuovo album dell’artista che meglio incarna il ruolo “sacerdotale” del cantante posseduto dal sacro fuoco del rock: Nick Cave, unico erede di figure come Jim Morrison, sciamano contemporaneo capace di evocare, suscitare, calamitare e orientare fisicamente energie primigenie cantando testi che non sfigurano accostati a quelle di pesi massimi come Leonard Cohen o Bob Dylan. Bene: nel suo recente “Ghosteen” (un capolavoro) non c’è una chitarra che una. Non è una novità: sulla scena sarda, per dire, si è assistito anni fa all’emergere di una band come i Sikitikis (oggi Siki) i cui primi dischi erano realizzati (dichiaratamente, e con orgoglio) senza impiego di chitarre. E tuttavia, che anche il rocker più rocker, in quest’anno di grazia 2019, si liberi delle sei corde fa una certa impressione.

Qualcosa, insomma, è cambiato. E se ne sono accorti anche i grandi media. Due anni fa, prima che scoppiasse il caso Gibson, il Washington Post pubblicò un corposo reportage di Geoff Edgers che, visitando un’importante fiera di settore in compagnia di George Gruhn, uno dei massimi esperti viventi di chitarre elettriche e venditori di strumenti vintage e di particolare pregio, ha dato i numeri: tra il 2007 e il 2017 le vendite di chitarre elettriche nel mondo sono calate di un terzo, da 1,5 milioni a poco più di un milione l’anno.

Qualche mese dopo, l’agenzia di rating Moody’s declassò il giudizio su Guitar Center, la catena di negozi di strumenti musicali più grande al mondo. Non meno grande il debito: 1,6 miliardi di dollari.

Torniamo in Sardegna. Da mesi quello che è stato per decenni il più importante e fornito negozio di settore, Dal Maso, a Cagliari, ha abbassato le serrande. Da mesi, niente più scintillanti parate di Fender, Gibson, Gretsch o Rickenbacker, in via Cugia (e se per questo, neanche più bassi, batterie, pianoforti, tastiere, impianti audio o accessori). Sul sito web dell’azienda l’avviso è che i locali sono in ristrutturazione. Ma qualcosa di simile diceva, anni fa, l’annuncio pubblicato in occasione della chiusura dell’altro punto vendita dell’azienda, Music Pool, in via Bacaredda.

Certo, la diffusione delle vendite online ha giocato certamente un ruolo. Ma la flessione è innegabile: rispetto ai ragazzi delle generazioni precedenti, i giovani del nostro tempo sono meno interessati alla musica. Oppure, per farla, non hanno più bisogno di utilizzare chitarre né altri strumenti fisici perché hanno a disposizione vasti arsenali di dispositivi digitali, efficaci e a buon mercato.

Ma lo stesso George Gruhn, nel famoso reportage del Washington Post chiariva che il problema è, essenzialmente, storico e simbolico: la chitarra incarnò, a partire da metà anni Cinquanta, una rivoluzione in atto. E restò in prima linea nelle varie fasi di quella rivoluzione, anche nella versione acustica quando, come cantava Bob Dylan, i tempi stavano nuovamente cambiando. Oggi rischia di apparire legata a doppio filo all’immaginario di generazioni che hanno fatto il loro tempo e il cui apparato simbolico (musica inclusa) non appare più stimolante a chi è ora chiamato a provare a cambiare il mondo.

Partita chiusa, dunque? Calma. Mai dire mai. Qualche segnale, a mettersi con l’orecchio a terra come facevano i pellerossa, sembra arrivare. In Italia, uno degli idoli delle nuove generazioni, il tanto chiacchierato Achille Lauro, ha mandato in classifica un paio di brani (a partire dalla celeberrima “Rolls Royce”) in cui, smarcandosi dal sound trap dei primi lavori, ha riportato in evidenza proprio le chitarre elettriche. Sì, certo, sono solo canzonette, ma per scrivere la parola fine in calce a una storia lunga e gloriosa, forse, è ancora presto.
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