Che la Pandemia sia un fenomeno diffuso su scala mondiale non abbiamo bisogno di ricordarlo. Che si tratti di un vero e proprio fenomeno drasticamente ed equamente diffuso al livello delle varie comunità e classi sociali, altrettanto. Che, invece, il Mondo, suddiviso in tanti ed egoisti Stati Nazionali possa contrastarlo solo operando su scala internazionale, ossia con azioni coordinate e simbiotiche nell’ottica dell’adempimento ad un dovere morale prima ancora che sanitario, sembrano non averlo compreso tutti. In quest’ottica, e solo in quest’ottica, va recepita la accorata esortazione di Papa Francesco, che in occasione della benedizione pasquale “Urbi et Orbi”, ha voluto sensibilizzare “l’intera comunità internazionale ad un impegno condiviso per superare i ritardi nella distribuzione” dei vaccini e per “favorirne la condivisione, specialmente con i Paesi più poveri”. La competizione tra Stati, tuttavia, sempre più accesa, sottile, ed imperante, la quale si è tradotta, e ancora si traduce, in sentimenti nazionalistici ingiustificati rispetto al contesto di riferimento, rende impossibile, o quasi, il conseguimento dell’obiettivo siccome la “frammentazione” operativa che ne deriva, inevitabilmente, finisce per ostacolare, limitandola, la capacità di risposta collettiva al fenomeno addirittura vanificandola. Detto altrimenti, e in maniera massimamente semplice: più si favorisce la diffusione del vaccino su scala mondiale, più sarà calibrato e risolutivo il suo effetto giacchè, finora, il poter aspirare, o il non poter aspirare alla utile fruizione del medesimo, è dipeso unicamente dalla appartenenza dei singoli alle più disparate realtà nazionali. Il “nazionalismo vaccinale”, in buona misura sostenuto dalle forze politiche destrorse esistenti in Italia come nel resto d’Europa e del Mondo, si pone verosimilmente come il frutto di una visione politica poco lungimirante, scientificamente fallace e unicamente e direttamente orientata alla massimizzazione di un consenso apparentemente immediato ma scarsamente persuasivo. Abbandonare nella difficoltà vaccinale gran parte della popolazione mondiale in ragione di un “diritto di primazia” arbitrariamente imposto e non altrimenti giustificabile se non attraverso atti di imperio di dubbia sostenibilità spazio temporale, significa consentire al virus, e quindi all’ “evento” potenzialmente pregiudizievole del contagio, di continuare a circolare e di continuare, altresì, a sviluppare e favorire la diffusione di varianti sempre più feroci nella loro dimensione patologica e sempre più difficili da controllare. Eppure “la Pandemia non finirà da nessuna parte finchè non sarà finita ovunque” (cfr. Amos Ghebreyesus). Si tratta di un concetto semplice, ma a quanto pare poco compreso e ancor meno praticato. Se ci soffermassimo a riflettere, anche solo per un momento, potremo maturare talune importanti convinzioni di fondo che ci aiuterebbero a fare sano spazio ai principi del buon senso personalistico e del buon vivere comunitario. Intanto, quella per cui sebbene il “vacci-nazionalismo” sia stato fenomeno assai diffuso anche a prescindere dall’attuale circostanza pandemica, come da più parti rilevato, tuttavia, oggi, a mio modesto avviso, appare ancora più gravoso e marcato perché si riscontra tra i vertici di governo nazionale e sovra-nazionale un atteggiamento mostruosamente ostracizzante rispetto alla libera e trasparente circolazione delle conoscenze. Quindi, quella per cui l’esigenza dei singoli Stati “satellite” (perché tali in effetti sono rispetto al panorama internazionale) di accaparrarsi “primati” fini a se stessi nell’elaborazione e nell’approvvigionamento degli antidoti, rischia seriamente di comprometterne la “affidabilità” soggettiva, siccome viene a difettare l’imprescindibile rapporto tra la decisa ed univoca elaborazione scientifica del fenomeno patologico nel suo momento impattante e la connessa consapevolezza sociale proprio nel suo ulteriore momento definitorio e comparativo di specie. Infine, quella per cui i vaccini, e con essi la ricerca scientifica in generale, sono divenuti lo strumento privilegiato, ed apparentemente scarsamente invasivo ma dolorosamente penetrante, per regolare i più disparati antagonismi politici esistenti tanto sul piano nazionale quanto su quello internazionale. In buona sostanza, gli antidoti vaccinali sono divenuti il nuovo ed inedito espediente propulsore della diatriba geo-politica nell’ambito della quale i tatticismi predisposti dai vari paesi, per un verso, sono stati, e sono, tutt’altro che omogenei e condivisi, e, per altro verso, sono andati, e vanno ancora oggi a cozzare irrimediabilmente con il principio di autodeterminazione dei soggetti, asserviti, loro malgrado, ad una dipendenza ideologica e psico-fisica fortemente condizionata da metodologie comunicative altalenanti ed in qualche modo confusorie nella loro sovrabbondanza mediatica. Proprio questa disparità contribuisce alla spontanea realizzazione delle condizioni “contrattuali” e strategiche di cui i singoli Stati possono disporre in via autoreferenziale, e contribuisce, altresì, a favorire, di conseguenza, il maturare delle ulteriori condizioni per la costituzione ed il consolidamento di nuove alleanze inter-statuali, giacchè la “pandemia”, condizionante come una grande “livella” a percorsi alternati e contrapposti, non mancherà, nel prossimo immediato futuro, di segnare l’avvio di una nuova dimensione sul piano delle relazioni internazionali, dal contesto delle quali resteranno escluse, inevitabilmente, tutte quelle nazioni che per carenza endemica di risorse o disordinata ed incoerente coordinazione interna (si intenda la nostra Italia in quest’ultimo caso), non si riveleranno in grado di affrontare la competizione sanitaria planetaria. Se così stanno le cose, come in effetti è difficile negare che stiano, quali sintagmi dovremo allora utilizzare, e/o elaborare, per riuscire a decifrare i mutamenti strutturali e congiunturali cagionati dallo sconvolgimento patologico in atto? Come “riscontrare” ed appianare, uniformandola, l’eterogeneità delle potenzialità logistiche nazionali sintomaticamente riflettenti le divisioni esistenti tra le varie realtà territoriali? E’ più opportuno assumere atteggiamenti egoistici “di recinto”, oppure aprirsi al mondo ed alle sue incognite nel segno di una condivisione controllata del rischio e dei mezzi (rectius: vaccini) utili a contrastarlo? Oppure ancora sarebbe più utile seguire la strategia cinese cosiddetta di “diplomazia vaccinale umanistica”, alternativa alla Via della Seta nella sua dimensione economica, finalizzata ad alimentare e massimizzare il consenso tra le frange della popolazione più povera e svantaggiata? Idealmente, sarei propensa a ritenere, al di là degli interrogativi proposti, siccome tutti intrinsecamente dissonanti nella loro dimensione ideologica e per nulla risolutivi nel loro momento definitorio, che l’unico modo realmente utile per rispondere all’esigenza/necessità di vaccinare l’intera popolazione planetaria sia solo quello di consentire a tutti i Paesi la possibilità di produrli “in loco” con contestuale obbligo, per i medesimi, di provvedere ad approvvigionare pro quota corrispondente le popolazioni meno fortunate e tecnologicamente svantaggiate. La campagna vaccinale, a diversamente argomentare, non potrà mai dirsi seriamente efficace giacchè ogni condizione di dipendenza strategica, o peggio ancora di sottile ricatto, finirebbe per incidere negativamente sulla parte “contrattualmente” più debole compromettendone il percorso di immunizzazione.

Giuseppina Di Salvatore

(Avvocato - Nuoro)
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