Di certo non sanno dove vanno. Viaggio nell'ignoto, da un lager all'altro. Nelle ultime ore il passaparola sulle coste dell'Algeria, fronte opposto di Teulada e Porto Pino, è stato incalzante come non mai. L'impeto della partenza è scandito dal canto ritmato che li accompagna in quel viaggio nell'inconscio alla ricerca di una libertà che non troveranno. Da quando è scoppiata la pandemia il terrore del contagio in terra d'Algeri ha radicalmente mutato le forme di protesta ai confini con il deserto. Raccontano di ribellione contro il governo, la povertà e la mancanza di futuro, forse, per alcuni, l'innata voglia di delinquere. A guidare la fuga, tradotta in ribellione, sono i social e Radio Corona international, assoldata a pieno volume da Hirak, il movimento popolare che anima i rimasugli, o il rilancio, della primavera arabo - algerina. Intonano a pieno volume le note di "Yatnahaw Gaa", che tradotto non lascia spazio a fraintendimenti: lasciamoli partire tutti.

Andiamocene tutti

Loro, gli "harraga", i giovani algerini che traguardano la Sardegna come fosse una terra promessa, l'hanno mutata in una profetica quanto esorcistica Nrouhou Gaa: "andiamocene tutti". Un report messo su carta intestata dall'intelligence dello Stato maghrebino è esplicito: negli ultimi cinque giorni in 485 si sono messi in spalla uno zaino di speranze e almeno duemila euro, il costo del biglietto che le organizzazioni criminali estorcono a chi vuole lasciare le coste del nord Africa verso la Sardegna. Pagamento anticipato, ovviamente. Dal momento in cui quel motore da quattro soldi affonda l'elica nel mare profondo per l'attraversata della vita non hanno più niente, né in tasca tantomeno nel futuro. Con loro solo cellulare e carburante, sufficiente, se non sbagliano rotta, per costeggiare, salvo qualche trascinamento pianificato da qualche nave sponda, il porticciolo turistico di Sant'Anna Arresi, a un tiro di schioppo dai missili che si infrangono sulla penisola Delta, quella interdetta nel poligono militare di Teulada.

Corano e morti

Gli scelba della polizia algerina, in uno slancio di rigore, negli ultimi giorni hanno infranto il sogno a mezzo migliaio di aspiranti clandestini intenti a gettare oltre gli scogli la temeraria missione. A dieci di loro le preghiere della sponda africana non hanno sortito l'effetto sperato. Le unità della guardia costiera hanno recuperato le spoglie sugli scogli, restituite da un mare cimitero. Volevano varcare la terra sarda ma non hanno superato la maledizione di un viaggio nel vuoto. Nelle ultime cinque giornate, dal 15 al 19 settembre scorso, l'assalto alla Sardegna sarebbe stato molto più copioso se non ci fosse stato un gesto di reazione delle autorità locali. Un sussulto funzionale più a punire la ribellione che arginare l'esodo biblico. Le incursioni delle imbarcazioni militari, secondo una nota del Ministero della Difesa algerino, hanno sventato e riportato a riva 42 imbarcazioni, con a bordo 485 viandanti pronti a trasformarsi in clandestini nella costa sarda.

Missione criminale

Missione finita anche per un'organizzazione criminale che gestiva il mercato degli uomini: la squadra mobile della Polizia Giudiziaria algerina ha rovesciato una rete criminale specializzata nell'organizzazione dell'immigrazione illegale attraverso la navigazione segreta.

Povero Sulcis

Il flusso, però, verso il povero Sulcis, non si è attenuato, nemmeno dopo la visita lampo e quasi segreta del ministro dell'Interno italiano Lamorgese ad Algeri. Nuovi sbarchi anche ieri e nuovi scontri all'interno del centro di Monastir. Dal lager d'Algeri a quel villaggio trasformato da scuola della polizia penitenziaria a inferno alle porte di Cagliari dove vengono sbattuti tutti quelli che raggiungono la costa sarda. Per la prima volta pubblichiamo immagini sconvolgenti di una situazione che va ben oltre il degrado e l'abbandono. Fotogrammi che immortalano uno scenario che imporrebbe uno svuotamento immediato del centro, pericolo latente quotidiano per gli operatori e non solo.

Lager ghetto

Quei capannoni trasformati in ghetto in attesa di un rimpatrio segnato da norme ataviche e surreali. Giacigli di fortuna, accampamento da lager libico, in terra di Sardegna. Le forze dell'ordine costrette ad operare in un luogo dove il virus e la malavita d'esportazione convivono senza confini. Nei giorni scorsi un blitz delle forze dell'ordine ha scovato spranghe ricavate da brandine smontate senza parsimonia. Improbabili letti recintati come se fossero paddok per bestiame. Tutto questo nel silenzio assoluto di chi dovrebbe vigilare e impedire che quei caseggiati diventassero incubatori di delinquenza e ammasso di sporcizia. Chi ha conosciuto quegli stabili adibiti alla formazione delle guardie carcerarie stenta a riconoscere l'impatto devastante di un'invasione incontrollata. Nessun pubblico monitoraggio di quell'ammasso di carne umana che tra Covid e criminalità imperversa tra una fuga e una protesta. Forze dell'ordine perennemente in stato d'allerta, equipaggiamento da antisommossa senza preavviso. Un quotidiano scontro con chi non ha niente da perdere avendo già sfidato l'attraversata nel mare aperto con Corano e preghiere. Ieri l'ennesimo tentativo di fuga, plurimo e solitario. Alcuni schedati come positivi, a spasso per la città con scavalcamento del muro di cinta. E altri 31 caricati di tutta fretta su un pullman bianco per tentare di allentare la tensione nel lager di Monastir.

Crociera su Tirrenia

Missione senza pudore. Dritti al porto di Cagliari. Traghetto Tirrenia pronto per l'imbarco verso Civitavecchia. Una volta sbarcati nel porto romano avranno 5 giorni di tempo per lasciare l'Italia e ritornare sull'altra sponda del Mediterraneo. Senza soldi e senza biglietti, resteranno, invece, a zonzo per la capitale sino al nuovo fermo. Del resto, dopo l'attraversata con barchino e le vacanze nel centro di rimpatrio, l'attraversata con la Moby Dada, classe 1981, gli sembrerà un viaggio in crociera. Missione vacanze romane. Nuovo giro e nuova corsa, da un lager all'altro, senza che nessuno si ponga il problema di quel canto che in quella terra desertica si fa sempre più impetuoso: andiamocene tutti. In Sardegna, però, non c'è nessuna terra promessa e a Monastir le brande non sono un paradiso.

Mauro Pili
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