Patrizia Biosa dice che il sospetto le è venuto quando, nonostante la calura, il figlio ha indossato la felpa. Il 21 luglio scorso, viaggiavano in macchina verso casa - lei, il marito, il figlio e la nuora - dopo lo sbarco a Porto Torres sulla nave in arrivo da Barcellona, la città della Catalogna dove Alessandro, 31 anni, lavora come chimico farmaceutico, Valentina fa un dottorato di ricerca, e dove lei e il marito avevano trascorso una settimana di vacanza. «Ha detto che sentiva freddo e a quel punto sì che l'ho pensato. Non sarà il virus del Covid?». Difatti. Patrizia e la sua famiglia saranno in quarantena fino al 4 agosto nella loro casa di Nuoro. Lei e il marito Gabriele Deplano, Alessandro e Valentina, tutti asintomatici, sono uno dei cluster sparsi oggi in Sardegna. Nell'Isola, infatti, a parte i migranti, tutti i nuovi referti positivi riguardano sardi rientrati da un viaggio e turisti appena sbarcati. «Per questo, anche se c'è solo qualche linea di febbre, è importante capire di cosa si tratta».

Cosa ha fatto quando ha avuto il sospetto che suo figlio avesse contratto il virus?

«Come prima cosa ho chiamato a casa dove ci aspettava Alberto, l'altro figlio. Gli ho detto di preparare subito una borsa col cambio e di andare dalla zia. Quando siamo arrivati Alessandro ha misurato la febbre: 38 e mezzo».

Quindi avete chiamato l'Usca?

«Sì, sono arrivati subito. Hanno fatto il tampone ad Alessandro, il giorno dopo è arrivato l'esito: positivo. Quindi l'hanno fatto a me, a mio marito e a Valentina che, per mettere al riparo la sua famiglia, è rimasta a casa nostra».

Il referto era positivo.

«Il mio e quello di Gabriele. Valentina è risultata positiva solo al terzo tampone».

È vero che suo figlio è stato contagiato dal datore di lavoro a Barcellona?

«Non è così. Alessandro è in smart working da marzo. Ha incontrato il datore di lavoro una settimana prima della partenza e questi gli ha detto che un suo amico aveva il Covid. Lui, però, era negativo e lo è ancora».

Avete ricostruito la catena dei contatti?

«Abbiamo seguito tutte le regole di igiene, compreso il lavaggio frequente delle mani. L'unica possibilità è che il contagio sia avvenuto in ristorante».

La Spagna è in Europa l'osservata speciale. In Catalogna, Barcellona lo è ancora di più.

«Mai viste le ramblas così deserte, i turisti sono pochi ma i locali, i bar, i ristoranti sono tutti aperti. C'è l'obbligo della mascherina anche in strada, i poliziotti controllano e sono severissimi».

Adesso siete monitorati dall'Usca...

«Sì, a parte le visite a domicilio veniamo chiamati due, tre volte al giorno e comunichiamo la temperatura, la pressione, il livello di saturazione dell'ossigeno nel sangue, e per questo ci hanno dato un saturimetro a testa».

C'è qualcosa che vorrebbe dire a chi sostiene che il virus è scomparso? Ai tanti che non portano la mascherina?

«È l'idea di tanti virologi da tastiera che credono di saperne più dei medici e del Governo. Uno può credere quello che vuole ma non può pretendere che il suo menefreghismo danneggi altre persone. Come si può non mettere la mascherina senza tener conto delle tante persone fragili e immunodepresse che possiamo incontrare al supermercato, al bar, in ristorante? Io e i miei familiari siamo asintomatici. Ma sappiamo bene che per tante persone, purtroppo, non è stato e non è così».

Piera Serusi

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