Carlo Jean da Mondovì di professione ha sempre fatto il Generale. Ha studiato per combattere, corpo a corpo. Il suo curriculum vitae è un libro aperto: Scuola Superiore di Guerra italiana e francese. Il suo forte la strategia militare e geopolitica. Francesco Cossiga, l'ultimo dei sardi salito al soglio del Quirinale, lo volle addirittura come consigliere militare del Presidente della Repubblica. Non fu un caso che, alle prime luci dell'alba del 2003, venne nominato Commissario Delegato per la messa in sicurezza dei materiali nucleari. Con poteri di guerra, appunto. Obiettivo realizzare un deposito unico nazionale di scorie radioattive.

La Waterloo del Generale

Per stare in tema, per Jean, fu una Waterloo. Nel 2006 lasciò l'incarico, con la coda tra le gambe. Ritirata, senza encomio solenne. Di quel deposito nucleare gli restò spiaccicata la porta in faccia della Sardegna che di ricevere quel riconoscimento di sudditanza non ne volle sentire. Assalto all'Isola dei Nuraghi respinto a colpi di referendum e guerre istituzionali, senza esclusione di colpi. Diciassette anni dopo, un impavido ministro dello sviluppo economico, Stefano Patuanelli, classe 1974, senza studi di guerra, infila, con il silenziatore, nel Recovery Fund lo stesso progetto del Generale: il parco tecnologico per la gestione sicura dei rifiuti radioattivi. Per i comuni mortali è la pattumiera delle scorie nucleari, quelle provenienti dalle dismissioni delle centrali atomiche italiane e ogni altro materiale radioattivo. Il dossier trasmesso a Palazzo Chigi nei giorni scorsi, con l'ambizione della riservatezza, è circoscritto: progettualità Mise, che sta per ministero industria e sviluppo economico. Lo schemino a tre colonne per proporre e sostenere la causa rilancia i punti salienti della proposta, con tanto di stanziamenti e tempi di realizzazione.

Bella Vita e azzardi

Da Jean in poi, tutti i ministri del rimpallo nucleare, quello dell'Ambiente e dello Sviluppo Economico, sono stati protagonisti indefessi della fiera infinita degli annunci. Il più azzardato, tra gli ultimi, Carlo Calenda, predecessore di Di Maio nello scranno di via Veneto, quello con l'effige del ventennio all'ingresso della strada della Bella Vita. Dopo aver preannunciato la pubblicazione della mappa dei siti «entro il quarto trimestre 2017» Calenda annunciò: «tra questa e la prossima settimana» il piano dei potenziali luoghi dove ubicare il deposito unico sarà reso noto. Era Marzo 2018. Di settimane ne sono passate, così pure di ministri. Di quella fantomatica mappa segregata nelle casseforti del Ministero, quello che fu della sola industria, prima del pleonastico richiamo allo Sviluppo Economico, non c'è traccia. Segreto di Stato. Del resto se Berlusconi e Cossiga scelsero un generale di guerra per decidere il sito non fu per diletto. Il timore di sommosse popolari in ogni dove non era una fantasia. Le lobby del nucleare, però, da allora non si sono mai arrese. Un mostro vorace che deve essere alimentato quotidianamente con un fiume di denaro, pubblico, pagato dalle bollette dei cittadini, attraverso i cosiddetti oneri di sistema.

Tentacoli nucleari

Per i signori del nucleare non c'era migliore occasione del Recovery Fund per allungare i tentacoli e continuare a foraggiare, senza tregua, il sistema del "decommissioning", quello della dismissione delle centrali nucleari e dello stoccaggio dei rifiuti radioattivi. La ciclopica caterva di denari del Piano Europeo per la Resilienza è occasione troppo ghiotta per non riproporre la scalata nucleare ai fondi pubblici per il via libera al deposito unico. La scaletta del ministro è messa nero su bianco nel documento che doveva restare interno al Palazzo: dai paventati benefici all'elargizione di mirra e incenso per chi accetterà senza resistenza la dislocazione delle scorie in casa propria. A pagina 19 del piano ministeriale si arriva a sostenere che «il progetto fa parte delle misure per la crescita sostenibile, in quanto consente una gestione razionale e sicura dei rifiuti radioattivi provenienti dalle ex centrali e da vari settori, ricerca, sanità e industria». Il deposito nazionale, con il tanto decantato Parco Tecnologico, secondo il dossier, «è la soluzione prevista dal programma nazionale adottato con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri il 30 ottobre dello scorso anno».

Ricchi premi e cotillon

Nel documento non si lesinano le copiose aspettative: «il progetto è in grado di generare un impatto positivo sulla filiera industriale e scientifica nazionale e sul territorio che ospiterà l'impianto». Aggiunge il ministero: «territorio che sarà sede di nuovi investimenti e di compensazioni economiche future». Per chi lo accetta, dunque, ricchi premi e cotillon. E' qui che, sottotraccia, il governo annuncia: «il nulla osta alla pubblicazione della carta dei Siti potenzialmente idonei a fine 2020». Una data, l'ennesima, che dovrebbe svelare la mappa dei siti potenziali. Un progetto da quattro righe e uno spuntino da ben 350 milioni di euro dal 2021 al 2026, tutto per finanziare «la progettazione, analisi, e soprattutto campagne di comunicazione a favore del deposito unico». Come se non bastassero gli spot con i quali sistematicamente ogni tanto vengono inondate le tv di Stato.

Conti radioattivi

Di certo a dare una mano all'ennesimo annuncio arriva la determinazione della Corte dei Conti che ha appena trasmesso a Camera e Senato un richiamo formale, con la minaccia nemmeno tanto velata di un possibile danno erariale, se non si dovesse individuare immediatamente il sito. La Corte contabile lo scrive apertamente: «Persistono i ritardi rispetto alle previsioni originarie per la localizzazione e realizzazione del Deposito nazionale in ragione dei quali l'Italia è stata deferita il 17 maggio 2018 dalla Corte di Giustizia europea. Ritardi che comportano la necessità di impiegare risorse per individuazione di soluzioni transitorie quali depositi temporanei con costi supplementari». Una carta in più per la Sogin, la compagine statale da sempre longa manus dello Stato nella contesa nucleare. La partita delle scorie radioattive, dunque, potrebbe trovare nuova linfa sia per i pronunciamenti della Corte di Giustizia europea che per quelli della Corte dei Conti. E per la Sardegna si riapre una guerra mai sopita. Non è un segreto che, già in occasione della Valutazione Ambientale Strategica, la Vas, lo Stato abbia fatto capire che la scelta del sito è scolpita nei criteri sulla Guida tecnica n.29, quella elaborata dall'Ispra, la Bibbia dei criteri per l'individuazione della regione dove verrà dislocato il deposito.

Codice rosso

Carte e mappe, tratti di colore in codice rosso che indicano rischi, pericoli, e che, in sintesi, affermano che la Sardegna è sempre la terra promessa più sicura per "proteggere" le scorie nucleari. Le simulazioni geosatellitari, contenute nei criteri dell'Ispra e condivisi con Sogin, e tenuti segreti dai ministeri, confermano che la Sardegna sarebbe l'unica regione a corrispondere a questi criteri individuati. Il database realizzato dagli Stati Uniti, tenuto sotto copertura, (Database of Individual Seismogenic Sources) individua in modo esplicito la Sardegna come unica regione esente da pericoli sismici, il criterio più importante contenuto nelle carte segrete. Nel quartier generale della Sogin, rispetto al passato, però, sono meno certi di portare a casa il deposito. Non è un caso che il 14 di ottobre scada il termine per una call nucleare bandita proprio dalla società di Stato. Cercano Startup e piccole e medie imprese interessate a sviluppare tecnologie avanzate per la gestione dei rifiuti radioattivi. Pensano a soluzioni alternative al deposito ma non lo dicono esplicitamente. Il deposito barcolla ma non molla. La partita è un affare da un miliardo e mezzo di euro da realizzare entro il 2026. Analogo progetto in Inghilterra, in realtà, però, ha già sfondato il tetto dei sette miliardi di euro.

Caporetto nucleare

La Cnapi, Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito, ha già individuato 100 possibili siti, ma dal 2015 ad oggi nessuno è mai riuscito a farla uscire dai cassetti blindati del ministero. Da stoccare ci sono 72 mila metri cubi di scorie radioattive, il 60% proveniente dagli ex impianti nucleari e il 40% da industrie che producono rifiuti radioattivi. Nei giorni scorsi un Sindaco, quello di Trino Vercellese, nelle colline del Monferrato, sede della centrale nucleare dismessa dedicata a Enrico Fermi, è stato lungimirante:«Fatelo qui il deposito, visto che le scorie sono già stoccate dentro il sito della vecchia centrale nucleare». Una soluzione da non sottovalutare. La Caporetto del Generale Jean, e dei suoi successori, dovrebbe servire di lezione, anche ai tempi di Covid e Recovery.

Mauro Pili
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