Blindata, segreta, esplosiva e soprattutto vietata. Sventola bandiera bianca al posto di quella a stelle e strisce di americana memoria nell'isola di Santo Stefano, nell'esclusivo arcipelago di La Maddalena. In questo scenario da paradiso terrestre, circondato da insenature mozzafiato, il mare è una limpida sorgente di colori invisibili che si stagliano su graniti bianchi e rosa. Si è arresa l'isola inviolabile. Perforata nell'anno del Covid, nel mese più copioso della stagione turistica. Da un lato, quello a nord dell'isolotto, appena tre chilometri quadrati, sino a un decennio fa stazionavano i sommergili più temuti della marina americana, quelli a propulsione nucleare. Ora, sull'altra faccia della stessa isola, in un pontile riservato, da tre giorni i battelli Caronte dell'esclusivo resort di Santo Stefano si sono fermati. I registri dell'hotel parlano di 475 tra ospiti e dipendenti, la maggior parte trasbordati sull'isola vietata da un tour operator quasi monopolista che ha venduto l'isolotto a caro prezzo. Isolati e garantiti, recitava il richiamo antiCovid. La vacanza paradisiaca in un attimo si è trasformata in un'odissea da incubo. Le cronache raccontano solo quello che le fonti ufficiali hanno lasciato trasparire, ma nel cuore del resort la vita è un'altra.

In gommone

Arrivarci non è facile. Quando spieghi che vuoi parlare con qualche turista isolato all'interno di quella struttura trasformata in un attimo da amaca di sole e acqua in una Caienna del Covid ti guardano storto. Come dire: non ci andiamo nemmeno sotto tortura. Alla fine un saggio lupo di mare lo trovi. Mascherina d'ordinanza e un miglio e mezzo tutto d'un fiato, dal molo 5 del porto di Palau all'insenatura nascosta nella Santo Stefano Island, quella degli americani. Lo scenario è da vacanza da mille e una notte. In quella mezza luna di spiaggia bianca che si staglia nel pantone «paradise island» che caratterizza i colori di questo scorcio incantato ci sono ombrelloni fitti fitti, come se la storia americana di un semplice virus influenzale sia trascesa direttamente dal fronte opposto dell'isola. Parlano gli avventori, seduti su un quadrilatero di lettini da spiaggia, a contatto l'uno con l'altro. Turisti indomiti sino alla fine, con la speranza di scorgere il loro, forse, ultimo tramonto sul proscenio di La Maddalena. Attendono una notte infinita, quella di una telefonata che potrebbe interrompere di punto in bianco la speranza che il virus non abbia bussato alla porta della loro camera. L'incursione sulla riva del resort a bordo di un gommone, a distanza decuplicata rispetto alle disposizioni di sicurezza, si affida a gesti e a numeri. I gesti sono tutti accompagnati da parole pronunciate a squarciagola attraverso una brezzolina che sale e una mascherina rafforzata sul viso. «Ci hanno lasciati soli e abbandonati senza notizie» - racconta una mamma alle prese con la famiglia ancora senza certezza del tampone. «Siamo in balia degli eventi, tutto si è fermato» - raccontano. In spiaggia il rito è propiziatorio, meglio all'aria aperta che nella promiscuità della mensa.

Check point Charlie

I numeri, nella lingua dei segni, sono quelli dei telefonini che ci affidano, per raccontare quel che succede dentro quell'enclave di turismo nell'era Covid. E, soprattutto, per sapere cosa succede fuori da quel check point Charlie, dove tutto è filtrato e attenuato nella forma e soprattutto nella sostanza. Ci vuole una preghiera per farli parlare, un rosario per farli tacere. Adrenalina a mille, per una vacanza trasformata in odissea. La prima a far squillare la linea rossa ha la voce della Padania e annuncia: ci hanno chiesto nuovamente di registrare i numeri di telefono, entro mezzanotte (la notte di mercoledì) i positivi riceveranno una telefonata e saranno informati sulle disposizioni da seguire. Sale la tensione e la sola idea che dopo 72 ore non si abbiano ancora i responsi dei tamponi cosparge benzina sul fuoco.

Non canta Fiorello

Il direttore del resort non regge l'impatto delle domande e l'imbarazzo delle risposte che mancano. Raduna tutti nell'anfiteatro gremito come se dovesse cantare Fiorello dei tempi d'oro nei villaggi in costa. Al telefono, amplificato da un improvvisato microfono da sala, c'è Marcello Acciaro, direttore sanitario dell'Areus, l'Agenzia delle emergenze, quella degli elicotteri e delle ambulanze. Le domande sono raffiche. Non canta ma fa esercizi di ascolto. L'accusa è scandita da interlocutori profani e da medici sparsi qua e là nella platea accaldata del semicerchio da ultimo spettacolo. Una domanda su tutte: perché dopo i tamponi, in attesa dei risultati, non ci avete isolato anziché rischiare di far circolare ancora i possibili positivi in totale promiscuità?

Non è un quesito, è un macigno. La notte è lunga, come quelle 72 lunghissime e infinite ore trascorse in attesa di un esito che arriverà quando le lancette avranno varcato abbondantemente la terza mezzanotte. I telefoni squillano pochissimo nel cuore del resort, nelle stanze degli ospiti la temuta sveglia nel cuore dei sogni non c'è, ma in molti hanno capito che quei tre giorni di attesa del responso possono essere stati un ulteriore incubatore spaventoso del virus. Un pericolo che tutti cercano di ignorare, di mettere sotto il tappeto, come se quei tre giri completi sull'orologio debbano essere nascosti.

Squilla al Bronx

Al Bronx, invece, come i ragazzi dipendenti chiamano la loro residenza al lato sinistro del fronte spiaggia del resort, sembra un centralino telefonico. Squillano i cellulari, copiosamente, almeno 14 volte. Positivi, tutti o quasi. I dipendenti, quelli della trincea, del front e del back office, dalla reception alla cucina, dai camerieri di sala ai lavapiatti, dal pizzaiolo allo chef. Un colpo durissimo per chi non solo era chiuso da ormai 14 giorni nel paradiso degli altri ma soprattutto viveva in un bunker dove quello stramaledetto virus aveva imperversato chissà da quando. Lo dicono a bassissima voce ma lo dicono: da inizio del mese in diversi avevano la febbre, ma temevano di perdere il posto di lavoro. Un equilibrio impossibile, quello tra il diritto alla salute e il terrore di perdere quei due, forse tre mesi di lavoro. Uno dei ragazzi positivi racconta sommessamente: dopo che ci hanno fatto i tamponi pensavamo che ci avrebbero fermato, in attesa degli esiti. Invece, no. Tutti i quattordici positivi hanno lavorato sino all'ultima sera, prima di quello squillo da infarto nel cuore della luna calante. Già durante la notte sono iniziati i trasbordi, dal Bronx all'area quattro, quella delle camere degli ospiti, nell'area che era stata preclusa per le disposizioni limitative della sicurezza post Covid. Isolati, senza notizie e senza mangiare. Nemmeno un panino per quattordici ore. I comunicati roboanti e ufficiali dei gestori parlano di successo dell'operazione, gestita in massima sicurezza.

L'autocelebrazione

La sanità pubblica si autocelebra per averci messo «solo» 72 ore per processare 475 tamponi. E menomale che l'emergenza era solo nel resort di un isolotto, seppur attraversato dai bunker della Nato pieni di missili e bombe di ogni genere. I primi turisti hanno lasciato Santo Stefano nel pomeriggio di ieri, con loro un foglio manoscritto del direttore dell'albergo che attesta la facoltà di circolare liberamente. Solo più tardi qualcuno ha riflettuto sulla validità di quel foglio giuridicamente carta straccia. Quel buco di 72 ore e 14 ulteriori positivi comunicati solo nella notte, dopo tre giorni a contatto con tutto il resort, sono molto più di un incubo. Nell'isola di Santo Stefano, intanto, annunciano i gestori, il 22 agosto nuova infornata di turisti.

Mauro Pili
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