U verru , il porco, probabilmente all'inaugurazione non ci sarà. Si è pentito lo scannacristiani , come lo chiamavano i suoi affiliati. Giovanni Brusca, 63 anni, al posto del curriculum vitae ha il registro di un cimitero. Ha raccontato tutta la sua vita, ha fatto nomi e cognomi dei suoi compari. Dal 2021 potrebbe lasciare il carcere di Rebibbia. Per capire cosa sia un capomafia basta leggere la sua deposizione: «Ho ucciso io Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l'auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato (sciolto nell'acido, ndr). Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento».

Brusca non farà in tempo a partecipare al taglio del nastro della nuova Caienna per capimafia in terra sarda. Il pentimento potrebbe portarlo ad essere un cittadino libero già dal prossimo anno. Come se niente fosse. Non sarà, dunque, tra i nuovi 110 capi dei capi che a fine estate sbarcheranno a Cagliari per occupare il padiglione del 41 bis nel carcere di Uta, a due passi dal capoluogo sardo. Capi dei capi, efferati, numeri uno della criminalità organizzata. Camorristi, mafiosi, esponenti di primo piano di 'Ndrangheta e Sacra Corona Unita. Tutti in Sardegna, nell'isola del diavolo, come la vecchia Cayenne francese.

Con una semplice differenza, quell'isolotto divenuto celebre per la detenzione più dura al largo della costa della Guyana francese era un deserto grande appena 14 ettari. Non è così per la Sardegna, regione insulare, con un milione e 650 mila abitanti e un'estensione di 24 mila km quadrati. Non un isolotto desertico in mezzo al mare.

Il nuovo braccio

Giovanni Brusca, dunque, non ci sarà ma a Cagliari arriveranno tutti i suoi adepti e soprattutto il suo capo Leoluca Bagarella. Ci saranno quelli più spietati, uomini dalla fedina penale enciclopedica. Lo sbarco in terra sarda è solo questione di settimane, forse qualche mese.

Dal Dap, il dipartimento del ministero dell'amministrazione penitenziaria, non passa giorno che non parta una telefonata alla volta del Provveditorato interregionale per le Opere pubbliche del ministero delle Infrastrutture. La richiesta è perentoria, l'immediata consegna del padiglione per detenuti sottoposti al regime del 41 bis. La sezione dei capimafia nel carcere di Uta doveva essere pronta già dal 2013 ma le alterne vicende del cantiere hanno lasciato in alto mare le celle dei boss.

Come capita spesso in Sardegna i blitz si organizzano d'estate, nella distrazione collettiva e il Dap romano vorrebbe compiere il trasloco già a fine agosto, massimo nella prima decade di settembre, quando ombrelloni e sdraio sono ancora dispiegati nelle spiagge dell'isola. Il cantiere lavora alacremente per mettere fine a quell'incompiuta. Lo stanziamento iniziale per quel padiglione dei capimafia era di 18 milioni, su un quadro finanziario complessivo dell'intero carcere che ha raggiunto l'esorbitante cifra di 94,5 milioni di euro.

Le opere rimesse in cantiere per la conclusione del padiglione 41 bis della Casa Circondariale Cagliari "Ettore Scalas" costeranno alla fine, salvo nuovi oneri in corso d'opera, un milione e 600 mila euro. Ogni suite per i capimafia nel carcere di Uta costerà la bellezza di 170 mila euro l'una. Un pozzo senza fondo sul quale la magistratura cagliaritana ha puntato i riflettori e il pm Emanuele Secci ha già mandato a processo 12 responsabili tra impresari e funzionari.

Un terzo dei capimafia in Sardegna

Il numero uno del dipartimento penitenziario del ministero della Giustizia, poco prima del lockdown, aveva sostenuto la tesi che le uniche celle del 41 bis a norma sono quelle del carcere di Bancali a Sassari e quelle ormai pronte della casa circondariale di Cagliari-Uta. La scusa per trasferire in Sardegna la peggior specie di criminali legati alle più spregiudicate cosche del malaffare è messa nero su bianco, giustificazione a prova di sentenza europea sulla dimensione delle celle e la loro vivibilità. Con l'operazione Uta i capimafia in Sardegna diventeranno 202, 110 a Cagliari e 92 (oggi sono 85) a Sassari. Quasi un terzo dei detenuti in regime di 41 bis saranno nell'isola, sui 700 complessivamente presenti nelle carceri italiane. A questi soggetti di primissimo piano si aggiungono quelli già dislocati nelle carceri di Oristano e Tempio, con tanto di detenuti in alta sicurezza 1, 2 e 3, ovvero detenuti appena usciti dal 41 bis, capimafia degradati, trafficanti internazionali di droga e terroristi legati allo jihadismo estremo.

Il connubio con Mesina

Per la Sardegna si rischia un colpo letale con devastanti contaminazioni del tessuto criminale locale e la stessa sicurezza nelle carceri. Due aspetti presi sottogamba e che stanno segnando fatti cruenti sia per i risvolti legati alle infiltrazioni delle grandi organizzazioni criminali nell'economia dell'isola, vedasi energie rinnovabili e rifiuti, turismo e soprattutto droga, sia per quanto riguarda l'incolumità degli agenti negli istituti penitenziari.

Nell'ultima relazione semestrale della Direzione Distrettuale Antimafia lo spaccato sardo non lascia adito a dubbi. L'infiltrazione si sta consumando nei gangli della criminalità sarda, da nord a sud dell'isola, passando per l'entroterra nuorese. I vertici dell'antimafia hanno scritto esplicitamente il riferimento al connubio tra Graziano Mesina e le grandi organizzazioni criminali del continente. L'anello di congiunzione, nato nelle carceri sarde e non solo, è figlio di quella contiguità territoriale e criminale nata proprio dal contatto diretto tra delinquenti locali, mafiosi, camorristi e soprattutto esponenti di primo piano dell'Ndrangheta.

Scrive la Direzione Distrettuale Antimafia: «Sono tra l'altro noti, ormai da tempo, collegamenti tra i sodalizi criminali di tipo mafioso tradizionali e la criminalità sarda per la gestione del traffico di armi e di droga. A titolo di esempio, si riporta la vicenda di un noto bandito sardo (condannato più volte per i reati di omicidio e sequestro di persona) il quale, scarcerato nell'anno 2004, è stato poi condannato a 30 anni di reclusione, con sentenza del maggio 2018, perché ritenuto al vertice di una organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti, unitamente a esponenti della cosca calabrese dei Morabito. L'episodio testimonia la presenza di proiezioni delle "mafie tradizionali", che creano relazioni e accordi con le compagini criminali autoctone. Un aspetto, quest'ultimo, evidenziato anche nell'analisi della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo».

500 agenti in meno

Parole incise a fuoco sul futuro dell'isola, da sempre considerata impenetrabile e che ora, invece, convive con un assedio devastante delle organizzazioni criminali ai massimi livelli. Il pericolo delle infiltrazioni è ovviamente legato agli effetti interni ed esterni alle carceri sarde dei detenuti in regime di 41 bis e di oltre 300 affiliati in alta sicurezza dislocati tra Oristano e Tempio e che finiscono per riversare in Sardegna adepti e familiari. Alcuni hanno già trovato casa. È capitato a Porto Torres e Golfo Aranci. La morsa criminale, però, potrebbe toccare il massimo pericolo con l'arrivo a Cagliari di una nuova ondata di capi dei capi. E come hanno ripetuto anche recentemente autorevoli magistrati il pericolo infiltrazioni rischia di diventare una certezza. A questo si aggiunge la sicurezza nelle carceri, dove si contano 500 agenti in meno di quanto il carico di lavoro preveda. Personale abbandonato a se stesso, il più delle volte senza direttori a tempo pieno. L'ultima delle note dolenti: nelle garrite di ferro esposte al sole nel carcere oristanese, roventi dal caldo di luglio, l'aria condizionata non funziona.

Bagarella e Zagaria verso Cagliari

L'ultimo episodio nei giorni scorsi proprio nel carcere di Massama ad Oristano. Salvatore Azzarelli, con all'attivo la preparazione della strage di Capaci bis per far saltare in aria i giudici della sentenza di condanna per l'omicidio di Giovanni Falcone, ha inscenato un tentativo di rivolta, fortunatamente seguito da nessuno. Poteva andare peggio. Nelle scorse settimane, invece, un agente dei Gom, il nucleo speciale che sorveglia nei bunker di Bancali i capimafia del 41 bis, ha rischiato di perdere un occhio. A tentare di infilzarlo con una penna uno dei soci di Brusca e compagni, tale Leoluca Bagarella, in arte don Luchino. Uno dei vertici di Cosa Nostra, affiliato al clan dei Corleonesi, classe 1944, spietato criminale pluriomicida, l'uomo che ha guidato la strage di Capaci e il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo sciolto nell'acido ad appena 13 anni.

Per quell'aggressione i sindacati ne hanno chiesto l'immediato trasferimento. Don Luchino, invece, è ancora lì, in attesa di inaugurare nelle prossime settimane il padiglione del 41 bis del carcere di Cagliari-Uta. E quando ritornerà dalla pausa domiciliare del Covid potrebbe raggiungere il sud Sardegna anche Pasquale Zagaria, mandato a casa in piena pandemia perché non godeva di sufficienti cure mediche. Tutti a Cagliari, la nuova Caienna di Sardegna.

Mauro Pili

(Giornalista)
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