Chi era veramente Alfred Jauffret? Chi era veramente mio padre? Questo comincia a chiedersi lo scrittore francese Régis Jauffret il 19 settembre 2018 attorno alle dieci di sera. In quel momento sta guardando distrattamente il televisore mentre viene trasmesso un documentario sull’occupazione nazista della Francia durante la Seconda guerra mondiale.

Improvvisamente passa sullo schermo un breve filmato di poco più di sette secondi in cui si vede un uomo arrestato dalla polizia nazista. Régis Jauffret riconosce in quella persona stretta tra due agenti in borghese suo padre, Alfred, che mai gli aveva raccontato di essere stato messo agli arresti, tantomeno durante la guerra. Ma non è solo questo fatto a colpire lo scrittore. La vista di quel filmato gli fa prendere coscienza di non sapere praticamente nulla del padre, un uomo quasi completamente sordo fin da quando egli era bambino e poi colpito da una progressiva depressione che lo aveva portato a isolarsi dal mondo e dagli altri. Soprattutto sente di essere “assetato” di quella figura paterna perennemente sfuggente fino a diventare assente. Se, come diceva Honoré de Balzac, “i padri devono sempre dare, per essere felici. Dare sempre, l’esser padre sta in questo”, allora in cosa Alfred Jauffret aveva saputo essere “papà” per il piccolo e poi per il ragazzo e giovane Régis?

Per rispondere a questa domanda e alle altre mille che gli girano vorticosamente in testa lo scrittore comincia la ricerca dei tasselli di quel puzzle complicatissimo e quasi impalpabile rappresentato da Alfred Jauffret. Un puzzle che, pezzo dopo pezzo, dà vita a Papà (Edizioni Clichy, 2020, pp. 200), ultimo romanzo di quello che è considerato uno dei maggiori scrittori europei contemporanei per la sua capacità di indagare le aree più oscure e nascoste della psiche umana.

E in Papà, Régis Jauffret non viene meno alla sua fama e non esita a mettere a nudo le sue paure, le sue ansie, la sua rabbia, il suo dolore, anche il suo disprezzo nei confronti di un uomo che non ha mai saputo dimostrargli il suo amore e a cui l’autore si dimostra nonostante tutto disperatamente e irresistibilmente legato. Mentre indaga su quel breve filmato che ha rivelato un lato sconosciuto del genitore, Régis Jauffret si rende, infatti, conto di non volere forse una verità inaccettabile su un uomo che magari per sfuggire all’arresto aveva denunciato ai nazisti degli innocenti. E neppure di poter tollerare la fredda cronaca, quella che gli ricorda Alfred Jauffret anaffettivo, assente, chiuso nel suo guscio. Viceversa, emerge una convinzione incontrovertibile: per quanto quel padre fosse stato lontano e sbagliato, non è umanamente possibile per lo scrittore farne a meno, smettere di amarlo e di desiderarlo, fino ad arrivare al punto di mescolare realtà e finzione, sogno e verità pur di costruire un papà accettabile, con cui sentirsi riappacificato.

Insomma, Régis Jauffret alla fine sembra dare ragione a Freud quando diceva: "Non riesco a considerare nessuna necessità nell’infanzia tanto forte come la necessità di protezione del padre". Una necessità che forse, però, prosegue per tutta la vita.
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