Riflessioni, approfondimenti, ma anche sfogo, angosciante verifica, atto d'accusa nei confronti del nostro agire sconsiderato e richiamo alla riscossa contro il virus che sta limitando la nostra libertà e genuflettendo l'economia: il pamphlet di Paolo Giordano, "Nel contagio" (Einaudi, 80 pagine, 10 €) è tutto questo e altro.

Discutiamo con lo scrittore del particolare stato d'animo espresso nell'opera i cui proventi d'autore li ha destinati alla creazione di due borse di studio presso la Sissa - Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste.

«Credo che a spingermi a scrivere questo saggio - spiega Paolo Giordano - sia stata l'emergenza intesa come la necessità di fissare i miei pensieri in quel dato momento, forse anche per la paura o la scarsa fiducia che altrimenti li avrei recuperati in seguito. Anche il libro perciò è scritto in una forma emergenziale: è breve, è veloce, è subito».

Lei afferma che «l'infezione è nell'ecologia»: vuole spiegare questo concetto?

«Sappiamo l'origine, il meccanismo della diffusione del virus che passa dagli animali all'uomo e si adatta dentro di noi. È sempre stato così dai tempi della peste. Ma ci sono degli atteggiamenti aggressivi che noi abbiamo verso la natura, gli ecosistemi e la deforestazione che rendono più probabile il nostro contatto con questi habitat nuovi e quindi con questi nuovi virus. In qualche modo i virus sono i profughi della distruzione ambientale. Se riuscissimo a mettere da parte un po' di egocentrismo, ci accorgeremmo che non sono tanto i nuovi microbi a cercarci, ma noi a stanare loro.

Nel contagio, la nostra efficienza è anche la nostra condanna?

«È la nostra condanna e al tempo stesso la possibile cura. Da una parte il Covid-19 è il virus che si è diffuso in maniera più rapida nel mondo. Non sarà quello più letale - spero - ma è quello che si è diffuso con maggiore velocità dappertutto. E questa è una conseguenza diretta del nostro essere molto in movimento, molto produttivi, molto relazionali gli uni con gli altri perché siamo noi di nuovo che diamo dei passaggi soprattutto in aereo, a questi virus».

Che cosa rende l'uomo la specie più invadente di un fragile e superbo ecosistema?

«Sicuramente la voracità. L'uomo è un colonizzatore, e soprattutto abbiamo un bisogno crescente e smodato di risorse. Tutto quello che siamo costretti a ripensare in questo momento è quello che avremmo dovuto pensare anni fa riguardo al cambiamento climatico. Ci sono molte analogie tra le due cose. Ma mentre il cambiamento climatico sembra qualcosa di sfuggente, astratto e lontano, stavolta sta succedendo qualcosa di veloce e riconoscibile alla cui base ci sono molte cause comuni legate al nostro comportamento».

Il virus, la paura del contagio, hanno aumentato la diffidenza tra le persone?

«Adesso c'è il distanziamento sociale che è necessario, e quindi se è accompagnato anche da un po' di paura in questa fase non fa male, perché ci porta a una maggiore prudenza che ora è la priorità. Male sarebbe se questo distanziamento sociale alla fine diventasse una diffidenza sociale. Ma io non lo credo: penso che questo sia un fatto temporaneo, frutto del momento che stiamo attraversando. Vorrei che restassero di più nel tempo gli effetti di solidarietà che stiamo vedendo, e soprattutto il rinunciare alla nostra produttività e socialità. Io non credo sia solo perché ci viene imposto e per non incorrere nelle sanzioni».

Rimpiangiamo la normalità, ma ora è il tempo dell'anomalia: come adeguarci a un cambiamento repentino e frustrante?

«Non credo sia possibile abituarsi anche se l'uomo, come i virus, si abitua a tutto. Io non pongo limiti alla nostra stabilità come specie. Credo che ognuno di noi dovrebbe trovare il modo migliore di gestire questa situazione perché quasi tutto quello che stiamo vivendo ha a che fare col tempo: i ritardi di tempo con cui abbiamo agito, il tempo in cui dobbiamo stare reclusi. Se ci mettiamo solo ad aspettare per fare il conto alla rovescia prima che finisca, l'attesa rischia di essere una tortura, e quindi bisogna trovare un modo per rendere fertile questo tempo».

Francesco Mannoni

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