Un’incredibile odissea giudiziaria durata quasi 10 anni. È quella che ha visto protagonista, da innocente, Giuseppe Melzi, stimato avvocato milanese (si è occupato, tra l’altro, di difendere i risparmiatori vittime del crac del Banco Ambrosiano e della Banca Privata di Michele Sindona), accusato ingiustamente di rapporti con la criminalità organizzata.

Il tutto, solo e soltanto per aver redatto, nel 2002, per conto di un suo “storico” cliente sardo, Giovanni Antonio Pitta (anch’egli coinvolto e anch’egli risultato, dopo anni di indagini, totalmente estraneo a ogni addebito), un contratto compravendita di un terreno a Olbia. Una transazione che la Procura di Milano ha sospettato potesse celare un’operazione illecita di “riciclaggio” di denaro sporco della ‘ndrangheta. Ma così non era.

Ciò nonostante, Melzi ha trascorso 89 giorni in carcere e 202 giorni agli arresti domiciliari, senza contare i 1.159 giorni di sospensione dall’attività professionale. Oggi che l’incubo è finito, ha deciso di parlare. Di sfogarsi. Di mettere ogni punto sulle i di una storia che ha inesorabilmente segnato la sua vita e quella dei suoi cari.

Cosa ricorda del giorno in cui tutto è iniziato?

“Il 1 febbraio sono esattamente dieci anni. Era il 2008. Dopo una mattina di lavoro, a Milano, sono uscito dall’ufficio per andare a pranzo. Avevo appuntamento con un amico, sardo tra l’altro, per mangiare una pizza. Sulla strada mi raggiungono due carabinieri. ‘Avvocato’, mi dicono, ‘dobbiamo consegnarle una cosa’. Pensavo al classico documento per qualche mia causa, come capitava spesso. ‘Datelo alla mia segretaria, è ancora in ufficio’, ho risposto. Invece…”

Invece?

“Invece mi hanno spiegato che era qualcosa di ‘diverso’ dal solito. Qualcosa di più grave. Che mi riguardava. E quindi ho dovuto accompagnarli in caserma”.

E lì cosa è successo?

“Mi ha raggiunto il capitano. Anche lui, che sapeva chi ero, sembrava a disagio. Ma ha fatto il suo dovere. E mi ha consegnato le carte - 276 pagine! - con cui la Procura di Milano mi tirava in ballo in un’inchiesta per riciclaggio con l’aggravante mafiosa”.

Cosa ha provato?

“È stato uno tsunami. Un’onda gigantesca che mi ha travolto”.

E poi cosa è accaduto?

“Mi hanno detto che dovevo contattare un avvocato. E io ho chiamato Giuliano Pisapia, mio caro amico. Anche lui non poteva crederci. Mi ha raggiunto subito. Si è occupato lui del caso, all’inizio, fino a quando non è sceso in campo per le comunali a Milano. Nel frattempo, mi hanno portato in carcere, a San Vittore…”.

Come hanno appreso la notizia i suoi famigliari, amici, colleghi?

“Dai giornali e dai tg, che, ovviamente, hanno dedicato ampio spazio alla vicenda. Capirà, un noto avvocato, vicino al mondo cattolico, con un passato in prima linea per difendere i diritti, accusato di collusioni con la mafia: non si parlava d’altro”.

Nessun beneficio del dubbio?

“Solo da chi mi conosceva. Tutti increduli. Tutti convinti che fosse impossibile. Qualche giornale ci andò cauto. Altri invece misero completamente da parte la presunzione di innocenza. Immagino il ragionamento: ‘Se lo dice la Procura sarà vero’. Senza pensare alle conseguenze che un simile atteggiamento può avere sulle persone coinvolte. Spero che la mia vicenda possa servire anche da monito ai media per rispolverare i sacrosanti principi del garantismo”.

Come è stata l’esperienza del carcere?

“E’ stato devastante. Qualcosa che ti segna nel profondo. Qualcosa che se non continui a ripetere a te stesso ‘sei qui da innocente, sei qui da innocente’, rischia di farti perdere il raziocinio”.

Quando l’impianto accusatorio ha iniziato a vacillare?

“Al momento della richiesta di rinvio a giudizio. Il gip - non uno qualunque, ma Paolo Ielo, che era nel pool di Mani Pulite - notò che non c’erano i presupposti per il processo. E sottolineò l’incompetenza territoriale di Milano. Dunque le carte furono inviate in Sardegna”.

E nell’Isola?

“I carabinieri del Ros di Cagliari verificarono le indagini dei colleghi di Milano. Anche a Roma ci furono accertamenti. Ma non emerse nulla di nulla a supporto dell’accusa”.

Così, nel 2016, è arrivata l’archiviazione. Ma qui salta fuori un’altra cosa incredibile: lei lo viene a sapere solo un anno dopo…

“Sì, per caso. Ho chiamato un mio collega di Tempio per un’altra questione. Questo risponde e mi fa: ‘Complimenti’. Io cado dalle nuvole. E lui mi spiega che in tribunale a Cagliari ha sentito che le accuse nei miei confronti era definitivamente cadute”.

Sembra la trama di un film…

“Sì. Invece è realtà. Una triste realtà che ha sconvolto la mia vita”.

Come mai non le è stata comunicata l’archiviazione?

“Vede, dopo il trasferimento degli atti a Cagliari, io ho rinunciato a seguire i passi dell’inchiesta. Non ho presentato nuove difese, convinto che ai nuovi pm bastasse leggere gli atti già disponibili per capire l’insussitenza delle accuse. Dunque non ho mai chiesto aggiornamenti e, da parte del tribunale, forse per carico di lavoro, non è mai partito alcun avviso. Ma questo è secondario. Resta - ed è molto più grave - che sono rimasto ingiustamente sotto inchiesta per anni”.

Da innocente

“Completamente. Era tutta una gigantesca “fake news”. Una bufala. E ci tengo a sottolineare una cosa: archiviazione significa non solo che sono uscito dalla vicenda da innocente, ma che l’inchiesta non doveva nemmeno iniziare, perché non c’era il minimo presupposto. Ci sono voluti anni, purtroppo. Non posso non ringraziare i giudici di Cagliari - i pm Ganassi e Pani e il gip Grandesso Silvestri - che leggendo le carte hanno capito l’infondatezza delle accuse dei colleghi di Milano”.

E’ accaduto a lei, stimato avvocato milanese. Se fosse capitato a un semplice, comune cittadino di provincia?

“Questo è un punto centrale, che deve far riflettere. Tutti possiamo sbagliare, è vero. Ma il garantismo non deve mai venire meno. So per esperienza che sono moltissimi i casi di persone coinvolte in vicende giudiziarie da innocenti. Persone che non hanno i mezzi e le risorse per restare saldi e mantenere le speranze. Persone che, prese dalla paura, arrivano anche ad ammettere responsabilità che non hanno. Per questo è necessaria una profonda riflessione sulle modalità di azione della Giustizia italiana. Un sistema che troppo spesso non funziona ed esercita poteri assoluti in maniera irresponsabile. Spero che il mio caso possa contribuire a cambiare le cose”.

Cosa si sente di dire a chi è chi è sotto indagine pur sapendosi innocente?

“Mi vengono in mente le parole di mio figlio, quando nel pieno della bufera che mi ha travolto mi disse: ‘Papà, la tua vicenda mi ricorda quella di Tortora. Ti prego, non fare la fine di Tortora’. Ecco, il mio consiglio è proprio quello di rimanere fermi nelle proprie convinzioni, di aggrapparsi disperatamente alla consapevolezza di essere innocenti. Solo così si riesce a trovare la forza di non soccombere”.

Chiederà un risarcimento?

“Sì, ho intenzione di avviare una causa contro lo Stato. Le istituzioni devono essere messe di fronte alle proprie responsabilità. Ma a livello umano ed esistenziale quello che ho passato è, e resterà, irrisarcibile”.

Luigi Barnaba Frigoli

(Unioneonline)
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