D a mesi ormai siamo governati non da norme certe e uniformemente applicabili, note ex ante a noi cittadini che vi siamo sottoposti, ma da Dpcm che cambiano periodicamente. Per fronteggiare la pandemia, il governo “insegue” il contagio, aprendo e chiudendo il rubinetto di diritti e libertà che, forse un po' ingenuamente, pensavamo ci fossero garantiti dalla Costituzione.

Questo modus operandi riflette senz'altro la volontà di tenere sotto controllo l'epidemia ma anche il bisogno di rinsaldare il consenso.

P er questo l'esecutivo guidato da Giuseppe Conte si attiene scrupolosamente a un canovaccio: per due settimane, prima che le nuove disposizioni vengano ufficialmente definite, si fanno circolare delle ipotesi, tipicamente ancora più restrittive. Parte così una sorta di negoziazione a mezzo stampa con le categorie e i gruppi più colpiti che, quand'anche le loro istanze fossero accolte solo in parte, sentiranno di aver spuntato qualcosa di più, rispetto allo scenario circolato inizialmente.

La bussola del governo sembra essere il vecchio principio per cui il fine giustifica i mezzi. Fra i mezzi impiegati ve ne sono molti di discutibili. Per esempio: uomini politici, luminari veri e presunti, giornalisti continuano ad ammonirci a “non fare come quest'estate”, quando gli italiani, essendosi ripresi un po' di libertà, sono andati in spiaggia e in discoteca, non sempre rispettando il distanziamento sociale. Gli assembramenti estivi avevano luogo all'aria aperta, quelli invernali avvengono al chiuso: basterebbe questo argomento a suggerire più cautela nella brutta stagione. Ma insistere su un nesso causale fra comportamenti di luglio e agosto e la crescita dei contagi in autunno significa, semplicemente, mentire, dal momento che sappiamo che il coronavirus ha un tempo di incubazione fra i due e i dodici giorni.

Così come discutibile è continuare a non diffondere i dati relativi ai contagi stessi attraverso una banca dati aperta, su cui chiunque possa compiere elaborazioni e valutazioni e nella quale confluiscano tutte le informazioni disponibili.

Discutere a partire da dati migliori servirebbe a promuovere misure davvero fondate sulle evidenze disponibili. Per quanto ne sappiamo, per esempio, la velocità di diffusione del contagio ha cominciato a flettere a partire da metà ottobre. Le prime misure anti-seconda ondata sono del 13 ottobre (obbligo di indossare la mascherina per le strade). Si potrebbe dunque pensare che esse abbiano sostenuto, rafforzato e accelerato l'inversione di tendenza, ma che anche prima le persone avessero cominciato a modificare i propri comportamenti, riducendo così le opportunità di contagio.

La cosa non è un dettaglio trascurabile, nel momento in cui si discute di quali misure rinnovare e per quanto tempo. Così come servirebbe avere una conoscenza più puntuale delle circostanze nelle quali i contagi effettivamente hanno luogo. Anche questo era l'obiettivo di quell'attività di tracciamento nella quale l'Italia non ha mai brillato per efficienza.

L'impressione è che abbiamo ormai preso un'altra strada. La comunicazione del governo insiste, più o meno esplicitamente, sul presentare il bisogno di incontrarsi, di stare assieme, di scambiare idee, pensieri e abbracci delle persone come un capriccio. Costoro, a dire il vero, non rivendicano diritti nuovi né desiderano libertà “estreme”: semplicemente vorrebbero fare la vita che hanno sempre fatto.

Questo doveva essere l'obiettivo del governo nella gestione della pandemia: fare il possibile, per consentire alle persone di continuare con la propria vita, nonostante il virus. Invece il “modello italiano” sembra ridursi a uno strano cocktail: norme discrezionali e rampogne moralistiche. Se i contagi scendono il merito è del pugno di ferro del governo, se salgono è colpa degli italiani scavezzacollo. Mettiamola così: in un Paese che da sempre si distingue per la scarsa fiducia nelle istituzioni, è improbabile che, passata la pandemia, questa aumenti.

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
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