I n politica, le stesse parole possono assumere un significato e delle sfumature diverse, con sorprendente velocità. Pensiamo a “Europa”. Per molti anni, l'Europa è stata una speranza. Con sprezzo della geografia, negli anni Novanta il governo di Romano Prodi è riuscito a “portarci in Europa”. Volevamo far parte dei paesi dell'euro, per quell'obiettivo abbiamo deciso di mettere ordine nelle finanze di casa nostra.

L'Unione europea ci è servita a fare molte riforme: da una parte, la nostra adesione al club ci ha portato a doverne adottare alcune regole, per quanto non sempre con entusiasmo, soprattutto quando si scontravano chiaramente con gli interessi di alcuni gruppi (pensiamo solo alla “direttiva Bolkenstein” e alla proroga delle concessioni per gli stabilimenti balneari). Dall'altra, l'adesione alla moneta unica ha richiesto di seguire alcune linee generali rispetto alle finanze pubbliche. Non era possibile avere la stessa moneta di altri Paesi senza seguire alcuni parametri comuni.

Per l'Italia, l'effetto fu un po' quello di chi sceglie una dieta dopo anni di stravizi: qualsiasi regime alimentare, anche il più curioso, è meglio che non averne nessuno. Coloro che più avevano spinto per l'ingresso nell'euro avevano precisamente quell'obiettivo. Erano politici consapevoli che, come scriveva Beniamino Andreatta nel 1982, in Italia si era spesso «negato alla finanza pubblica il suo scopo originario, che era quello di fornire servizi pubblici e infrastrutture efficienti, al minimo costo e per il massimo vantaggio dei cittadini», per addossarle oneri indebiti.

S tare in Europa doveva servire a ridurre lo sperpero dei quattrini del contribuente e raddrizzare un certo modo di fare politica, prendere voti usando i soldi di tutti, che era diventato l'unico metodo in un Paese pieno di contraddizioni e tenuto insieme, perlomeno agli occhi dei più cinici, solo con il magico collante della spesa pubblica.

In Europa siamo entrati sperando che, a differenza del coraggio, la parsimonia fosse una virtù che chi non ce l'ha se la potesse far dare. Per un po' di tempo è stato così. Ma negli ultimi quindici anni le cose sono molto cambiate. La classe politica si è fatta due conti: riformare significava rischiare di perdere voti oggi, in nome di benefici domani che sarebbero stati incassati da altri governi. Ci siamo portati appresso la zavorra dei nostri problemi ritenendo che non pensarci fosse meglio che tentare di risolverli.

Con la crisi del debito, questo non è più stato possibile. Paesi che hanno un debito pubblico elevato sono più dipendenti dai loro creditori: se pensano che non riusciranno a restituire quanto hanno prestato, chiedono un interesse maggiore. I timori sulla tenuta del Paese ci hanno portato alla crisi del 2011.

Da quel momento, Europa è diventata una brutta parola nella politica italiana. Proprio perché ci spronava a fare le riforme, interpretate ormai come cambiamenti che mettevano a rischio il nostro benessere, non speranza di costruire un Paese più solido. La narrazione populista, che tanta fortuna ha avuto negli ultimi anni, viene di lì: l'Europa è associata a riforme per la sostenibilità delle finanze pubbliche, e queste ultime alla esecrata legge Fornero.

Ora è cambiato tutto di nuovo. Già negli scorsi anni le politiche monetarie accomodanti della Banca centrale europea avevano cambiato tutto. Se indebitarsi costa poco, i politici non terranno sotto controllo il debito: e in effetti non l'hanno fatto. Con la pandemia dall'Unione europea arrivano le ingenti risorse del Recovery Fund e un ok generalizzato a indebitarci di più. Siamo passati dall'austerità ai re magi.

Per questo “europeista” è tornata a essere una bella parola nella politica italiana, rivendicata con orgoglio da Giuseppe Conte e dalla sua maggioranza.

Ma attenzione. Ieri erano “europeisti” quelli che volevano metterci a dieta, oggi coloro che ci spronano a ingozzarci di “junk food”. La parola è la stessa, le intenzioni di chi la usa sono molto diverse.

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
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