M ario Draghi è un premier tecnico, ma la sua presidenza per ora ha avuto effetti dirompenti soprattutto sul piano politico.

Le dimissioni di Nicola Zingaretti, la scissione nei Cinquestelle e le baruffe all'interno di Leu sono i contraccolpi a sinistra. A destra c'è stata l'evoluzione europeista e istituzionale di Matteo Salvini. È vero, come ha ricordato in una intervista alla Stampa Massimo Garavaglia, che l'elettorato di riferimento della Lega coincide da sempre coi ceti produttivi del Nord. Ma gli anni passati cavalcando i temi dell'immigrazione e la polemica antieuropea hanno inciso tanto sugli elettori quanto sugli eletti. Salvini ha provato a conquistare tutto il Paese, andando oltre il suo zoccolo duro padano. Ha reclutato ceto politico proprio sulla base di questo obiettivo e, con l'eccezione di alcuni elementi (Arrigoni, Calderoli, Garavaglia, Giorgetti, Rixi e pochi altri), la pattuglia parlamentare leghista è oggi molto diversa sia dalla classe dirigente “storica” del partito sia dai suoi amministratori locali al Nord. Questi ultimi spesso incarnano un'idea molto pragmatica di buona amministrazione senza troppi grilli ideologici per la testa.

Non è detto che la stessa sensibilità prevalga anche fra i parlamentari i quali non sono un mero accessorio, neanche in un partito fortemente leaderistico: sono loro a votare le leggi e sono soprattutto loro che, essendo già alla Camera o al Senato, hanno la ragionevole aspettativa di tornarci alle prossime elezioni.

È questo il caso in cui è più evidente la vera questione dei prossimi mesi: se il governo Draghi ha già scomposto il quadro politico, cambierà soltanto la collocazione relativa dei partiti, il modo in cui si rapportano l'uno con l'altro, o anche le ricette che essi si sentiranno di promuovere?

Per semplificare, potremmo dire che la pandemia ci lascerà un'Italia sovrastata da due problemi. Il primo è come provare a ricostruire quegli ampi settori dell'economia italiana che usciranno tramortiti dalla stagione delle chiusure coatte. Si tratta, in parte, di attività che erano claudicanti già prima. Capita a tutti, nel passeggiare nelle nostre città e trovare delle vetrine purtroppo ormai vuote, pensare che non abbiamo mai veramente capito chi ci entrasse, in quel negozio. E tuttavia, piacesse o meno, quell'esercizio dava da lavorare a un certo numero di individui. Come creare lavoro e opportunità per queste persone è una sfida da far tremare i polsi.

Per ora lo Stato ha provato a offrire, ad alcuni di loro, sostegni o ristori che dir si voglia. L'esperienza ha smentito l'idea, popolare in certi ambienti, che gli esseri umani desiderino semplicemente avere un reddito. L'amarezza per avere perso l'occupazione, l'abbandono forzato della propria routine e la perdita degli obiettivi quotidiani non sono compensati da un sussidio. In quest'anno, abbiamo imparato quanto quella del reddito di cittadinanza fosse un'utopia: non per i vincoli di finanza pubblica ma perché per le persone il lavoro è più che una fonte di guadagno. Fa parte della loro identità, è uno dei tentativi che mettiamo in campo per dare senso alle nostre vite.

L'altro problema è l'eredità di un lungo periodo dei sussidi: un rapporto debito/PIL al 160%, in un Paese che da vent'anni ha bassi tassi di crescita e che è difficile immaginare possa crescere a ritmi elevati nei prossimi anni, se non altro per fattori demografici (una popolazione più anziana esprime meno dinamismo economico di una più giovane). Anche immaginando che le banche centrali proseguano con politiche monetarie molto accomodanti, questo significa necessariamente l'orizzonte di un aumento della pressione fiscale, immaginando che la spesa pubblica resti invariata.

Le forze di sinistra stanno investendo molto sulla retorica ambientalista. Per quanto possa essere auspicabile, la transizione ambientale implica pressoché necessariamente costi più elevati per le imprese, il che difficilmente aiuta la ripresa economica. La svolta verde è dunque un potente strumento per giustificare, agli occhi degli elettori, quel mix di bassa crescita e alta spesa pubblica che è, se le cose non cambiano, il nostro futuro.

Invece negli ultimi anni i partiti di centrodestra hanno provato a importare il discorso trumpiano, cosa che è più facile a farsi all'opposizione che quando si governa col Pd e i Cinquestelle. Come riusciranno a differenziarsi dai nuovi alleati? Le uniche proposte concrete hanno coinciso, finora, con l'ampliamento della platea dei “ristorati” alle partite Iva. Forse per vincere le prossime elezioni potrebbe bastare ma è una strategia che, in qualche modo, contribuisce ad aggravare i due problemi ai quali abbiamo fatto riferimento. Per questo non è affatto detto che la Lega resti sulla strada imboccata. Se per la sinistra la svolta green potrebbe essere la giustificazione positiva di una economia stagnante, la destra potrebbe invece volerla imputare a un vecchio nemico: l'Unione europea.

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
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