C i sono dei momenti in cui la realtà sembra volersi vendicare della propaganda. È successo la vigilia di Natale, quando Boris Johnson e Ursula von der Leyen hanno estratto dal cilindro un trattato commerciale che chiude le negoziazioni sul dopo-Brexit.

Che la Gran Bretagna uscisse dall'Unione europea senza un accordo sarebbe piaciuto ai propagandisti di una parte e dell'altra. In Inghilterra, si sarebbe rafforzato il racconto dell'Europa matrigna. A Bruxelles si sarebbe potuto sostenere che l'Unione aveva tenuto duro, lanciando un messaggio chiaro a chi fosse mai stato tentato di seguire gli inglesi. Ma chiudere una stagione lunga quarant'anni così, guardandosi in cagnesco, sarebbe stato troppo capriccioso e infantile, persino per la politica dei giorni nostri. Improbabile avvenisse nel semestre europeo toccato in sorte alla più adulta dei leader continentali, la signora Merkel.

Un accordo si è trovato e, per ora, conta soprattutto il messaggio: il canale della Manica non si allarga, Paesi Ue e Regno Unito restano partner commerciali più stretti di quanto siano l'Ue e il Canada o gli Stati Uniti. Sono lontani i tempi in cui queste faccende si potevano risolvere in documenti di poche pagine, sancendo che i prodotti del tal Paese non erano gravati da dazi d'importazione. In realtà i trattati commerciali nel mondo d'oggi sono strumenti che mirano ad armonizzare le regole che governano la produzione nei Paesi coinvolti: qualcosa che gli inglesi avevano già, con l'appartenenza all'Unione europea, ma da cui intendevano svincolarsi.

I l grido di guerra dei “Brexiter” era appunto la riconquista della democrazia, contro i mandarini di Bruxelles. Se è indubbio che la burocrazia europea sia più ficcanaso di quanto auspicabile, lo è altrettanto che in un mondo iper-regolamentato mantenere aperti e interconnessi i mercati di due Paesi significa venire alle prese con le norme altrui, trovando soluzioni di compromesso. I Paesi europei sono il primo partner commerciale del Regno Unito, che a sua volta è importante controparte per ciascuno di essi. Il ritorno di barriere daziarie da tempo scomparse avrebbe incrinato relazioni d'affari consolidate. Gli interessi hanno soffiato nella direzione della ragionevolezza. Questo, per quel che riguarda lo scambio di merci. Non c'è nessuna certezza, invece, per quel che attiene i servizi, che rappresentano l'80% del Pil inglese e che sono il settore in maggior crescita nel commercio internazionale.

Il giorno dopo il referendum, la Brexit sembrò a tutti una specie di sciagura. Il 52% dei votanti aveva deciso una questione di rango costituzionale imponendosi sul 48% e su coloro che non si erano recati alle urne: spesso giovani, i più danneggiati dall'esito del plebiscito. Uscire dall'Ue è paradossalmente più difficile che fare la secessione da uno Stato nazionale, perché gli Stati membri sono legati assieme da una serie di trattati costruiti, negli anni, l'uno sull'altro. È come un domino dal quale non si può togliere soltanto una tessera: per esempio, la libertà di circolazione delle persone. Che poi la rottura si sia consumata su quest'ultimo punto è, a posteriori, una beffa, dal momento che l'evoluzione del dibattito sull'immigrazione, il terrorismo e la pandemia hanno portato a restrizioni inimmaginabili nel giugno del 2016. All'epoca, l'Ue appariva divisa sui migranti ma era riuscita a sopravvivere alla crisi dell'euro. Oggi il Covid-19 ha consentito ingenti trasferimenti al suo interno. Non è detto però che essi non determinino, nel medio termine, una crescente conflittualità. Promesse di quattrini a parte, la gestione della pandemia non è stata brillante. L'Ue ha, comprensibilmente, comprato vaccini col manuale Cencelli. Si trova ora ad avere relativamente poche dosi di quelli già disponibili e, sulla carta, molte di quelli ancora in corso di sviluppo. Il Regno Unito a Natale aveva già vaccinato 600 mila persone. Con gli inglesi in Europa viene a mancare un contrappeso importante a Francia e Germania. Nel breve, per i britannici la Brexit sarà soprattutto un costo. Ma è difficile sostenere che lascino una squadra in grande armonia.

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
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