S i dice spesso che un nuovo governo ha davanti a sé tre mesi di luna di miele. Una volta trascorsi, s'imporrebbe quella che Milton Friedman chiamava la “tirannia dello status quo”: burocrazia e gruppi d'interesse consolidati, che esercitano una forte presa sull'apparato dello Stato, sarebbero destinati ad avere la meglio anche sul nuovo leader meglio intenzionato. Friedman aveva in mente gli Stati Uniti, un Paese presidenziale dove il potere dell'inquilino della Casa Bianca è incomparabilmente superiore a quello del nostro premier. Il governo Draghi ha ottenuto la fiducia lo scorso 17 febbraio: siamo quasi a due terzi della luna di miele. A differenza del Presidente americano, Draghi non è stato eletto ma è una figura unica per carriera e prestigio. Di qui, il credito di cui gode presso l'opinione pubblica. Deve tuttavia confrontarsi quotidianamente con una maggioranza tanto ampia quanto, proprio per questo, eterogenea.

Alcuni anni fa, prima del governo Monti, anche in Italia c'era chi sosteneva che al Paese servisse una grande coalizione per fare le riforme. Ma le riforme sono, quasi per definizione, divisive: se si cambia il fisco bisogna decidere su chi spostare il peso delle tasse, se si riformano le pensioni si rischia di scontentare questa o quella categoria di lavoratori, riforme settoriali (telecomunicazioni, energia) richiedono una visione che può penalizzare gruppi precisi. Per questo, più sono i partiti intorno al tavolo, più sono le istanze che rappresentano e più è difficile che si riesca a costruire un programma coerente.

I l governo Draghi però ha una duplice natura: da una parte, deve gestire la pandemia. L'ampia maggioranza si giustifica con una sorta di chiamata alle armi, di invocazione alla responsabilità di tutti, in una fase così delicata.

Dall'altra, deve disporre il cosiddetto Recovery Plan: cioè indicare priorità e impegni per la spesa dei quattrini che ci aspettiamo dall'Unione europea, sia come debito che come trasferimenti veri e propri. Quest'ultimo aspetto fa gola alle forze politiche ma richiede anche un impegno riformista: per avere gli aiuti bisogna dimostrare di saper mettere in ordine la casa.

È su quest'ultimo aspetto che chi si aspettava una maggiore discontinuità rispetto al governo precedente è stato sin qui deluso. Il presidente del Consiglio ha espresso, nei suoi interventi pubblici, sensibilità diverse: nel discorso per la fiducia, ha usato parole, rispetto al bilanciamento fra Stato e mercato, all'importanza della concorrenza ma anche rispetto alla quota di prestito del Recovery Fund, che lasciavano presagire l'intenzione di un cambio di passo. Più di recente, invece, ha dichiarato che questo per lo Stato è il tempo di dare: il che non fa che rafforzare la posizione di tutti coloro che battono cassa per il loro elettorato di riferimento.

Sulla delicata partita della pandemia, la posizione del premier sembra essere quella della massima concertazione possibile delle decisioni a livello europeo. Pur mantenendo il ministro Speranza, ha cambiato le altre figure apicali coinvolte nella gestione dell'emergenza. Qualche passo falso (come sul vaccino Astra Zeneca) non è mancato ma era probabilmente inevitabile: è un terreno sul quale il premier si muove con circospezione, condividendo con gli altri leader del mondo la difficoltà di affidarsi a una scienza che dà meno certezze immediate di quanto si desidererebbe.

Stupisce di più che su questioni vicine alle sue competenze e alla sua storia invece Draghi non abbia sin qui battuto un colpo. I dossier rete unica e Autostrade per esempio. Nel governo, si confrontano sensibilità diverse, con i Cinque stelle che vorrebbero proseguire sulla strada tracciata da Conte, muoversi cioè nella direzione della nazionalizzazione, mentre non si può dire che né la Lega né Forza Italia incarnino una opposizione particolarmente strutturata a questi trend.

Draghi era direttore generale del Tesoro quando sono state privatizzate entrambe le aziende oggetto del contendere, è lecito immaginare che abbia un'idea perlomeno circa il fatto che esse stiano meglio dentro o fuori il perimetro dello Stato ma è difficile dire che cosa pensi davvero: o perlomeno, non ci sono segnali che consentano di intuirlo. Quanto “sue” saranno le decisioni che verranno prese nelle prossime settimane? Se non si allontanerà dalla strada imboccata dal suo predecessore, come reagirà la parte della maggioranza che era all'opposizione di Conte?

La tirannia dello status quo è, nel caso di questo governo, il ritorno alla centralità dei partiti. Il premier agisce con la calma di chi aspetta di essersi impadronito appieno della macchina per decidere in che direzione condurla. Ma più passa il tempo e più si riduce il suo potere negoziale con le forze politiche, soprattutto se deve spendere parte del suo capitale politico per giustificare nuove chiusure.

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
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