L 'equilibrio raggiunto dalla politica italiana dopo il voto di fiducia al governo Conte è, evidentemente, precario. Il Paese si ritrova con un esecutivo impegnato a cercarsi una maggioranza, dopo che l'Italia Viva di Matteo Renzi si è sfilata e ha scelto la strada dell'astensione.

La debolezza del governo non è soltanto questione di voti, ma anche di idee. Nei due passaggi parlamentari, il presidente Conte ha chiesto consenso sulla base di uno scenario che è grosso modo questo: la pandemia ha portato un cambiamento irreversibile nel patto che sta alla base dell'Unione europea. Lasciate perdere approcci obsoleti basati sul testo dei trattati. Siamo ormai in una situazione nella quale si è accettato che vi sia un trasferimento di risorse dai Paesi “frugali” a quelli che frugali non sono. L'Ue, che ieri esigeva rigore di bilancio, oggi invece è disponibile a farsi carico delle nostre fragilità. Questa non è una situazione temporanea e legata al Covid-19 e ai disastri che ha prodotto nel nostro Paese. Può essere una “nuova normalità”. In questo senso, anche il Movimento Cinque Stelle può definirsi una forza “europeista”.

È uno scenario sensato? Nel breve termine, difficile dire di no. L'azione della Banca centrale europea dà grandi margini di manovra agli Stati e l'interesse di tutti è uscire, nel modo più indolore, dalla seconda crisi in dieci anni che, dopo quella del debito sovrano, ha messo sotto stress moneta unica e istituzioni comunitarie.

P er reagire al Covid, gli Stati hanno bloccato l'attività economica privata e questo ha generato la necessità di sostenere e “risarcire” quanti non hanno potuto lavorare e portare avanti le proprie iniziative. Ciò ha comportato la necessità di far debito. Ma limitarsi ai risarcimenti non è bastato ai diversi governi, che hanno deciso di sostenere investimenti con l'intenzione di rafforzare le rispettive economie.

Gli effetti nel lungo termine sono da vedere, quelli nel breve dovrebbero coincidere con un consolidamento della presa di chi governa sul Paese. La novità non sta tanto nel meccanismo ma nel fatto che si finanzia con debito europeo (che in qualche modo gli Stati membri dovranno ripagare, ma con quali strumenti si vedrà). Bruxelles non ci obbliga più a tenere i conti in ordine ma ci manda quattrini: questa l'essenza della questione, o così almeno ci viene presentata.

Nel medio termine, non è detto che ci si possa fare conto. È una questione politica: i contribuenti olandesi, o tedeschi, o danesi, a un certo punto potrebbero cambiare idea e decidere di non finanziare più i loro omologhi italiani o spagnoli. Per ora lo fanno nella convinzione che italiani e spagnoli siano in grado di fare fruttare bene quegli aiuti, e proprio per questo in futuro non ne avranno bisogno più. Ma bene sarebbe non dare proprio loro l'impressione che siamo determinati a usare quei quattrini per elargizioni elettoralistiche: non è un caso se nelle recenti interviste dei commissari Dombrovskis e Gentiloni è già serpeggiato un po' di irritazione per la piega presa dalla discussione in Italia.

Ecco perché i fondi del Recovery Fund rischiano di essere non una nuova normalità, ma un'iniziativa straordinaria, alla quale non ne seguiranno altre simili. Il guaio è che purtroppo lo stesso dibattito su come impiegare quelle risorse suggerisce che le spenderemo male. Le diverse forze politiche giocano con le poste e, come sempre, misurano le proprie vittorie con la capacità di accrescere i capitoli di spesa cari a ciascuna di esse. È quello che avviene in tempi normali, senza Recovery da spendere, figuratevi adesso. Ma così facendo tutta la discussione si incentra sulla spesa. Come se la spesa fosse un bene in sé, indipendentemente dagli obiettivi. Ciascuno di noi però sa che non tutte le spese sono uguali: è diverso comprare una macchina, ad esempio, per potersi recare al lavoro o dover riparare una cantina ridotta male a causa di un'inondazione.

Non è poi chiarissimo che spendere di per sé significhi risolvere un problema. Pensiamo alla concorrenza, alla cattiva qualità di molti servizi pubblici, alle lungaggini della burocrazia e della giustizia. Non sono questioni che richiedano nuovi stanziamenti, ma riforme. A lungo questa parola, “riforme”, è stata sovrana della politica italiana. Destra e sinistra si dividevano non tanto sul fatto che bisognasse riformare l'Italia, ma su come andava fatto. Oggi nessuno vuole riformare più niente. La lotta politica, perlomeno quest'anno, è una gara per decidere chi spenderà la manna dal cielo. Finendo per sopravvalutarla: 209 miliardi sono una cifra straordinaria ma si tratta, dopotutto, di circa un quarto di quello che lo Stato italiano spende ogni anno.

Sarebbe sbagliato dire che i partiti non hanno una visione per il futuro del nostro Paese. Ce l'hanno, ma è tutta costruita sulla prospettiva di sussidi ed aiuti. È l'idea di una società italiana sempre più dipendente da uno Stato italiano a sua volta sempre più dipendente dalla “solidarietà” europea. È la strategia del mendicante. Che succede se il resto d'Europa si stufa di farci la carità?

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
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