F ranco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità, ha confermato che si riscontra «una iniziale ma chiara decelerazione della curva» dei contagi. Purtroppo, come abbiamo imparato, i morti rivelano la situazione di un paio di settimane fa: quindi continueranno a salire, ancora per qualche giorno. Questo, però, non significa che le misure non stiano funzionando.

Ma che cosa “sta funzionando”? Il dibattito politico è tutto incentrato sulle norme. Il fatto, terribile, che abbiamo superato la soglia dei 500 morti al giorno porta l'opinione pubblica a chiedere alla politica di “agire”. Agire significa imporre nuovi divieti. In realtà questi primi segnali di decelerazione sono ancora riconducibili non al più stretto lockdown da zona rossa dell'ultima settimana, ma a decisioni prese un mese fa: obbligo di mascherina all'aperto e coprifuoco. Dell'una e dell'altra forse ha contato soprattutto il valore segnaletico. Vedersi circondati da persone che indossano la mascherina, in ogni situazione, restituisce un senso di eccezionalità. Questo senso di eccezionalità provoca preoccupazione e induce alla cautela.

A fare la differenza, sono e saranno i nostri comportamenti. I provvedimenti presi a colpi di Dpcm non possono bastare: anche per questioni molto banali. Per esempio, sentiamo da più parti invocare sanzioni contro la movida e c'è il timore diffuso che il governo non riesca a mettere sotto controllo gli assembramenti, se arriveremo a una riapertura a dicembre, a meno di non usare il pugno di ferro.

M a sono davvero immaginabili delle ronde per scoraggiare giovani e meno giovani dal farsi una birretta in compagnia? L'impossibilità di offrire consumazioni, da parte di bar e ristoranti, dopo le 18 ha portato molti ad anticipare l'ora dell'aperitivo. È scontato che l'impossibilità di uscire per cena porti molti a ritrovarsi in casa per una pastasciutta insieme.

Il bisogno di “socialità” può essere rallentato dalla paura ma non può scomparire perché una norma lo proibisce. Gli esseri umani, di solito, quando incontrano un ostacolo sul proprio cammino trovano il modo di aggirarlo. Proprio perché la nostra virtù maggiore è l'adattamento.

L'impressione è che molto spesso questo non lo capiscano né il governo né alcuni degli scienziati che più intensamente frequentano i salotti televisivi. Ci hanno fatto precipitare in un film in bianco e nero. Il lockdown totale è brandito come una minaccia e alle norme si affida il compito di raddrizzare i comportamenti imprudenti. In realtà viviamo, come sempre, nel mondo del pressapoco. Aggiustamenti anche piccoli nella condotta delle persone (farsi un giro dell'isolato posticipando l'ingresso in un negozio affollato) possono fare la differenza.

Se a nove mesi dallo scoppio della pandemia è ancora necessario usare la clava dei divieti significa che la politica ha fallito, non che è stata lassista. Ha fallito sotto due profili: in prima battuta, non è riuscita a mettere in sicurezza tutta una serie di attività, per esempio il trasporto pubblico locale, dove anche gli individui più prudenti devono fare i conti con vincoli che non dipendono da loro (quanti mezzi ci sono, quante corse, quante carrozze e posti su un treno, eccetera). In seconda battuta, nonostante da mesi non facciamo che parlare del virus, sono evidentemente mancate informazioni istituzionali chiare, né allarmistiche né eccessivamente confortanti, che aiutassero le persone a calibrare i propri comportamenti.

Questa non è una guerra: il Covid non lascerà semplicemente il campo di battaglia ma starà con noi a lungo. Sperabilmente, sapremo meglio venirci alle prese. Dobbiamo imparare ad averci a che fare, ciascuno di noi. Per questo serve di più responsabilizzare il singolo, rispetto al modo in cui deve rapportarsi agli altri ma anche rispetto alle azioni da intraprendere, per esempio, in presenza di primi sintomi non gravi, che offrire ogni volta all'opinione pubblica l'illusione di una soluzione magica, che sia il lockdown o il vaccino.

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
© Riproduzione riservata