L a cronaca ci dà il chiodo per appendere il quadro con il paesaggio che conta davvero, ricordare che la scuola è tutto.

Il pestaggio e l'uccisione di Willy Monteiro a Colleferro è un memento, perché se in questa storia c'è un problema politico, è proprio quello dell'educazione, della cura per la vita, del rispetto del prossimo, dell'esercizio della ragione. Quei selvaggi che hanno ammazzato Willy non ne avevano, far crescere i muscoli senza nutrire il cervello apre loro le porte della prigione, hanno colpito per uccidere. Siano fatte le indagini, sia fatto il processo, sia fatta giustizia, meritano il massimo della pena, l'ergastolo. Elevato è il principio della funzione rieducativa della pena, pilastro della civiltà giuridica, ma quello è un “dopo” fatale, mentre in questa vicenda quello che lampeggia come un faro nel buio è il “prima”, non la rieducazione, ma l'educazione.

Questa è la grande assente nei commenti sull'assassinio di Willy, si è discettato di arti marziali (nobile arte che è legata alla filosofia orientale e insegna l'esatto contrario di quanto affermato da legioni di ignoranti, l'equilibrio e il controllo della propria mente), di cultura della violenza (che cultura non è), si è perfino tentato di buttarla in politica distribuendo etichette d'odio a destra e a sinistra. Nessuno ha ricordato che qui c'è un luogo mancato, un buco nero: la scuola. L'eterno nuovo inizio (o fine) di ogni comunità, perché chi ha una cattiva scuola ha ottime possibilità di rovinare se stesso e il mondo.

H a la possibilità di donare la vita o spezzarla, perché è tra i banchi che comincia la parabola dei buoni e dei cattivi, dei migliori e dei peggiori. La scuola è il luogo dove si scopre il talento e dove si può correggere la rotta di chi l'ha persa. Se non fa questo, ha fallito.

La scuola in Sardegna inizierà il 22 settembre, a Roma i portoni si spalancano domani, vedremo presto quanto saranno maturi gli italiani, se abbiamo un problema di governanti o in fondo la questione riguarda chi li vota, i governati. La prova più grande è per i presidi e gli insegnanti, hanno trascorso le ultime settimane a far calare sul pianeta Terra le regole del paraculismo giuridico dei burocrati (obiettivo: scaricare la colpa sempre su qualcun altro), saranno sottoposti a pressioni enormi, prima di tutto quelle di famiglie che non hanno conosciuto la fatica della caduta e della ricostruzione del Paese, l'era dei nostri genitori, quella in cui la maestra e il maestro erano rispettati dalle famiglie non ancora esperte di pedagogia su Wikipedia e tutti in piedi quando entra in aula il preside.

Mai come oggi vale il titolo di un libro fortunato di Marcello d'Orta, “Io speriamo che me la cavo”, un libro germogliato dalla coscienza terrosa di una lingua che impasta l'italiano e il dialetto, i temi dei bambini di una scuola elementare di Arzano, in provincia di Napoli, che rivelano con humour involontario la tragedia del nostro Mezzogiorno. Correva l'anno 1990, trent'anni dopo siamo entrati nell'era del coronavirus e la scuola resta il nostro specchio: l'estate che non è mai stata estate è andata via tra le polemiche da Gran Premio sui banchi a rotelle e monoposto, il compito in classe è finito in mezzo a un turno di elezioni regionali molto importante per la tenuta della maggioranza. Era un incrocio che andava evitato, l'hanno centrato in pieno. La scuola è futuro e memoria.

Ricordo. Il grembiule nero, il fiocco, la cartella, la passeggiata a piedi dal piazzale della basilica di Santa Maria a via Cesare Battisti, il grande palazzo e centinaia di bambini come me. Si entrava il primo ottobre, tutti sull'attenti. E guai a te se disubbidisci alla maestra. Ricordo l'infanzia a Cabras.

Ricordo. Un vortice colorato, i cartelli con le lettere appesi al muro. “C” era sempre cane; “D” era un eterno dado; “S” era indubbiamente il sole; “A” era per forza ape; “E” provateci voi a dire che non era elefante; la “I” era un imbuto fisso; “F” era “fff di fiore”; “G” era una giraffa che nessuno di noi aveva mai visto; la “B” dalle parti dello stagno non poteva che essere quella di barca. Ricordo le cose, le parole, che scoperta.

Ricordo. La lavagna nera, il campo di battaglia delle nostre imprese, la maestra Lina Manca, zero spaccato quando non avevo capito un fico secco, 10 quando avevo azzeccato tutto. La scuola aveva il dono della chiarezza e dell'autorità costruita sull'autorevolezza.

Ricordo. I miei compagni, tutti. Sono il tempo perduto e ritrovato quando scrivo. C'era la classe e non il classismo, eravamo poveri e pieni di dignità, facevamo vita di paese, la storia era scandita dalle feste religiose che contenevano sempre qualcosa di pagano, Don Manca celebrava messa come un generale. Anche i primi amori furono una questione di chiesa, novena, processione, stazzo, tiro a segno e compagna di banco. Altri tempi, gli anni Settanta in un'isola che cercava lo Stato e non lo trovava. Non lo abbiamo ancora avvistato all'orizzonte, siamo in mezzo al mare, fieri nella nostra isolitudine. È la lezione di quella scuola che ci ha insegnato a vivere perché era viva.

MARIO SECHI

DIRETTORE DELL'AGI

E FONDATORE DI LIST
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