L 'unica costante, nelle previsioni economiche di questi mesi, è la revisione al ribasso. L'Istat ha comunicato che nel secondo trimestre il Pil ha avuto crescita negativa per 12,8 punti. La variazione è rispetto al già non brillante trimestre precedente.

È paradossale che la notizia non buchi il video e sia stata anzi spesso consegnata alle pagine interne dei quotidiani. Ci si consola vedendo che altri Paesi hanno fatto peggio, in questo trimestre: come la Francia (-13,8), la Spagna (-18,5) e l'Inghilterra (-20,4). Si finge di non vedere che la media dell'eurozona è comunque leggermente migliore (-12,1) e che la variazione, rispetto non al trimestre ma all'anno precedente, è ben peggiore: -17,3%, come ci informa Eurostat.

L'Italia è ormai un Paese nel quale la spesa pubblica conta per metà del prodotto. Nella pubblica amministrazione, è verosimile che forse si siano ridotti di un poco gli acquisti, non sicuramente i salari. La contrazione del Pil è dunque, quasi per definizione, una faccenda che riguarda la componente privata. La pandemia ha colpito gli investimenti e ha ridotto i consumi delle famiglie. Alcuni settori hanno accusato perdite modeste (telecomunicazioni, industria finanziaria), altri invece sono entrati in una fase di stallo dalla quale è difficile dire con sicurezza quando usciranno. La convivenza con il virus condiziona, comprensibilmente, i nostri comportamenti e rende perciò difficile offrire tutta una serie di servizi. Inoltre, il clima d'incertezza condiziona profondamente le decisioni di investimento e di spesa.

Q uanto più il futuro appare difficile da prevedere, tanto più è normale che le persone riscoprano la cautela.

Per i più giovani, le prospettive sono particolarmente fosche. Non solo l'economia si contrae vistosamente ma le misure più importanti prese dal governo, cioè il blocco dei licenziamenti e l'estensione della cassa integrazione, tendono a preservare l'esistente, riducendo così l'incentivo ad assumere nuovi lavoratori. È comprensibile se, percependo che i figli faticheranno a trovare lavoro, i genitori rimandano qualche spesa e cercano di risparmiare un po' di più. Allo stesso modo, è comprensibile (e saggio) che tutte quelle persone che, dopo la fine del lockdown, hanno potuto riprendere a lavorare ma temono che si possa ritornare a blocchi (totali o parziali) delle attività, cerchino di mettere un po' di fieno in cascina.

A dispetto di certe semplificazioni che, è facile prevederlo, si imporranno presto sui giornali, il problema non è che queste persone non spendono. Il problema è che le condizioni generali del Paese ci impensieriscono e ci dissuadono dal ragionare su come realizzare i nostri progetti.

Ma forse l'assenza di crescita, in Italia, non è dovuta soltanto alla pandemia e a quel distanziamento sociale che, necessario per tenere sotto controllo il virus, rallenta l'attività economica. Fino ad ora noi abbiamo reagito alla crisi economica compiacendoci dell'imminente arrivo della manna dal cielo. Il governo e gli italiani sono convinti che il “Recovery Fund” risolverà ogni problema. Si dimentica che, almeno in parte, esso coincide con una crescita dell'indebitamento (e i debiti, anche prima, non ci mancavano) e lo si tira in ballo per le iniziative più diverse. Rilancio delle infrastrutture, rete unica delle telecomunicazioni, investimenti pubblici e chi più ne ha più ne metta.

Forse è anche per quello che dati così fortemente negativi per il Paese passano in relativo silenzio: si sa che le cose vanno male, oggi, ma il rimedio è a portata di mano.

E se anche questo modo di ragionare fosse parte del problema? Sappiamo che, per ottenere accesso ai fondi europei, dovremo fare alcune riforme. Quali? Mentre su come spendere i quattrini europei le proposte non mancano, di riforme invece non ci piace più discutere. Negli ultimi anni abbiamo semmai avuto delle contro-riforme, come Quota 100, che assieme al reddito di cittadinanza ha costituito, di fatto, un potente incentivo a non lavorare. Oggi al contrario il nostro problema è rimettere al lavoro quante più persone possibile, ma di lavori produttivi deve trattarsi, che contribuiscano a creare ricchezza e, così, a spingere la crescita.

Ciò che ostacola questo processo non è tanto l'assenza di risorse da investire, ma le difficoltà di carattere burocratico e regolamentare, l'incertezza normativa, potenti dissuasori della voglia di intraprendere.

Come affrontare questo problema? Come restituire ai nostri concittadini, fra i quali vi sono spesso straordinari talenti imprenditoriali, la voglia di fare? Questo è cio che dovremmo davvero chiederci. Ed è una domanda alla quale la risposta non la daranno certo i sussidi.

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
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