D ai fasti del Re Sole in poi il galletto francese ha indossato la livrea del pavone. Ha gonfiato le piume e, rivendicando glorie che il suo passato non contempla, si è messo a cantare sul balcone della Storia. I nostri cugini transalpini ostentano una “grandeur” che loro stessi si attribuiscono e pretendono che gli altri gliela riconoscano. Questo comportamento, che spesso diventa arroganza, a noi italiani non è mai piaciuto, ma non ci ha mai irritato. Lo abbiamo giudicato con sufficienza, talvolta compatendolo come si fa con un bambino che si atteggia a adulto, consapevoli, come scrisse Giuseppe Giusti, che noi «eravamo grandi e là non eran nati». Due atteggiamenti, il nostro e il loro, contrapposti: loro proteggono l'identità nazionale, noi soffochiamo la nostra, quasi vergognandocene. L'esempio più eclatante è la difesa della lingua. Loro la tutelano in maniera maniacale, come facevamo noi in epoca fascista, adattando con forza le parole straniere al francese; noi importiamo vocaboli e locuzioni come se l'italiano non avesse autonome capacità espressive. Conte e i suoi ministri hanno sostituito “isolamento” con “lockdown”, Macron ha parlato sempre e soltanto di “déconfinement”. Forse ha ragione il filosofo Michel Onfray: «Quando si impoverisce la lingua si vogliono manipolare le menti».

TACITUS
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