A ccade talvolta che il giudice diventi filosofo. Dal connubio scaturiscono sentenze che chi è solo giurista o solo filosofo non capisce. Per capire occorre il “combinato disposto” delle due competenze. Chi, come noi, è di modeste scolastiche conoscenze filosofiche e giuridiche sprofonda in una crisi esistenziale e gli viene meno quel po’ di autostima che possiede. Si rende conto di non afferrare più il senso delle parole. Per esempio. Un pubblico ministero dimentica in carcere per ben 43 giorni un detenuto. Al comune cittadino pare una colpa grave, ma il Consiglio superiore della magistratura lo assolve. Con questa motivazione: per «scarsa rilevanza del fatto». Fatto irrilevante per chi? Certamente per quel pm e i suoi colleghi che lo hanno assolto, ma non per chi indebitamente ha trascorso un mese e mezzo negli ameni B&B delle carceri italiane. Sconcertante? Sì, ma non quanto due precisazioni contenute nella sentenza: «Vi è stata un’indebita compressione della libertà» e «appare indubitabile la responsabilità dell’incolpato». Insomma, quel pm è colpevole e allo stesso tempo innocente. Come l’«essere-non essere» di Parmenide, che troppi magistrati ha influenzato; un’acrobazia giuridico-filosofica di fronte alla quale il nostro pensiero annaspa. Chi spera nel referendum sulla giustizia si rassegni: il magistrato filosofo continuerà a sentenziare.

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