"Cara Unione,

sono nata a Milano, da genitori sardi. Siamo tornati a vivere in Sardegna quando avevo sei anni, ci è voluto un po' per riuscire a riconoscermi nei muretti a secco bruciati dal sole, in questo mare che ci protegge da un'Italia a cui forse non apparterremo mai.

Ancora oggi questa Sardegna, così diversa da ogni altra terra che ho visto, mi sta' stretta, mi ribello al suo amore duro e odoroso di mirto.

Avevo 17 anni quando sono entrata nel gruppo di ballo sardo del mio paese e ho messo il costume, sa falda (il grembiule), il velo (su maccaloru).

Stretta nel corpetto, con la camicia di pizzo, i gioielli di filigrana, mi sentivo importante, bella, immensamente scomoda e sarda come non lo ero stata mai, parte di una comunità, di una tradizione.

Ora lo chiamano costume, come se fosse tutto una gran carnevalata, ma era un vestito, il vestito che usava la mia bisnonna come le donne del resto della Sardegna.

Nonna diceva che per andare in chiesa era naturale mettere un fazzoletto in testa, fazzoletti neri, di pizzo, di seta, di stoffa: ne era gelosa e li conservava puliti e profumati nel suo cassetto in camera, erano preziosi.

Vestita col costume mi sentivo così anche io, preziosa, pulita, come se portarlo per un giorno aprisse una porticina sul passato, un po' di quell'antico rispetto, quella dignità di donna di altri tempi, fiera, impettita.

Eliminare il velo del costume sarebbe rubare un po' di quella magia, di quei sorrisi orgogliosi sulla bocca delle ragazze che lo indossano, sarebbe cercare di mettere una briglia al vento che ti agita il velo come se fosse un'ala, rinfrescandoti il collo, mentre sfili o balli per la tua gente, per mantenere in vita ciò che sei stata e ciò che sei ora. La tua terra. La tua casa".

Alessandra Fanni - Scano di Montiferro (Or)

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